La Stampa, 7 giugno 2025
Cari commentatori, smettetela. Tragico resoconto di un mese da hater
Mentre progettavo questo esperimento, il possibile commento negativo che si materializzava nella mia testa era che per me fosse facile scrivere poco sui social, o non sentire l’esigenza di commentare, perché avevo altri mezzi su cui esprimermi. Per usare il linguaggio di Twitter (lo si diceva già prima che diventasse X), dovevo «check my privilege», controllare il mio privilegio.
È vero, e infatti ci ho fatto un libro. Sul fatto che io possa fare come mi pare su questi altri media, non è vero: se volessi pubblicare un lungo articolo su quanto è cambiata la cancelleria da quando sono arrivate le pagine dotted, o a griglia puntinata, oltre alle righe e i quadretti, potrei pure trovare qualcuno disposto a darmi spazio. Provassi a fare la stessa cosa con le mie opinioni su, che ne so, l’invasione russa in Ucraina, la risposta di qualsiasi redattore sarebbe: «C’è gente più competente di te, lascia perdere». E avrebbero ragione, visto che davanti a una cartina dell’Ucraina non saprei neanche indicare con precisione dove si trova Kiev (è più o meno in mezzo, forse nord? Di quanto ho sbagliato?). Avendo introiettato questa mentalità, la applico anche sui social, dove ogni approfondimento è impossibile e in competizione con ben più allettanti video di cagnolini. Lo dico a mio discapito, dato che in ogni ambiente in cui lavoro avere seguito sui social vale più di qualsiasi altra voce a curriculum. Ma qui torniamo anche al tema che esponevo all’inizio: scrivere pistolotti sui social sarebbe come lavorare gratis, e a me non va di farlo manco pagata, figurati. Il problema di scrivere queste pagine dopo l’esperimento è che ho osservato fino a che punto si possono estendere i commenti negativi, quindi ora sono ossessionata da tutto. Però, ammetto, anche da niente. Ho capito che a prescindere dalla malefatta – dall’aver ricevuto un pacchero trafilato al bronzo ad aver maltrattato una donna – ci sarà sempre qualcuno online dalla tua parte. Motivo per cui ho capito che le opinioni non cambiano, o meglio: vanno adattandosi verso la parte che ti dà ragione.
In un video essay pubblicato su YouTube nel periodo in cui stavo chiudendo questo libro, la commentatrice e persona più intelligente di internet, Natalie Wynn, nota come «ContraPoints», analizza in che modo si struttura il pensiero cospirazionista («una parodia del pensiero critico») e come è diventato il metodo e il linguaggio anche delle persone di maggior potere negli Stati Uniti in questo momento – proprio le élite che fino a qualche tempo fa stavano al centro delle cospirazioni. Nelle conclusioni, cercando di capire come alcune persone diventano improvvisamente megafono di queste teorie, nota che in molti casi tale cambiamento arriva dopo una gogna pubblica, un merdone. Per esempio, Naomi Wolf, una delle autrici di spicco della terza ondata femminista, ora è una delle più famose sostenitrici delle teorie NoVax, contro le «scie chimiche» e il 5G. Secondo Wynn, questo spostamento è avvenuto nel 2019, quando un giornalista della Bbc fece notare a Wolf che alcune interpretazioni di termini giuridici nel suo libro appena pubblicato, Outrages: Sex, Censorship, and the Criminalization of Love, erano errate, e di conseguenza molte delle tesi sostenute. Molti passanti su Twitter ne hanno approfittato per farle trovare un bel merdone. Un anno dopo è tornata come portavoce del movimento No-Vax. «È come se si stesse vendicando con il concetto stesso di fattualità», dice Wynn nel suo video, raccontando percorsi simili di altri neo-cospirazionisti, passati attraverso un merdone per uscirne «dall’altraparte». Stando su X molto più di quanto sia consigliato per mantenere la propria sanità mentale, mi è sembrato di capire questo: ci sarà sempre qualcuno ad accoglierti, qualsiasi sia la tua idea. Cercare di «far cambiare idea» o di «convincere» qualcuno della bontà di un argomento è inutile, perché ci sarà sempre qualcun altro a darti ragione o a spostare l’attenzione su altro. E in un contesto come quello contemporaneo, in cui i ceo delle piattaforme social hanno mostrato la loro appartenenza politica o collaborano direttamente con la presidenza Trump, è facile capire quali saranno le idee più visibili. Ma al di là delle questioni aziendali, è il trattamento stesso dei fatti e delle argomentazioni sulle piattaforme che non dà nessuno spazio a possibili cambi di pensiero, perché quando troppi pensieri coesistono, non c’è nessuna reale spinta al cambiamento. Mi rendo conto che sia un’analogia banale, ma gli scambi di opinione che ho visto su X in questi giorni, così come altrove negli ultimi anni, erano molto simili alle tifoserie del calcio, nel senso che non si è mai sentito qualcuno in uno stadio dire «Ehi, ma lo sai che quel coro sul fare i chilometri e superare gli ostacoli solo per il Napoli è molto più convincente del nostro? Basta Milan, adesso cambio squadra!». A parte il fatto che qualsiasi persona accanto reagirebbe menandolo; ma poi lo scopo del coro, così come del commento, non è quello. Non è convincere. È far vedere da che parte si sta. Nessun utente che chiede su X «Perché ci sono più donne su OnlyFans che uomini?» è interessato davvero alla risposta. Nessuno di quelli che urlano allo scandalo per gli influencer che ricevono gratis la spesa mentre la gente diventa più povera è interessato a sapere quali sono le reali ragioni per cui la gente è più povera, e quanto poco c’entrino gli influencer. Ognuno avrà il suo gruppo a cui tornare che gli darà ragione a suon di pacche sulle spalle e hashtag dedicati, e saremo tutti da capo. E questo vale anche per il genere di commento «cattivo per essere cattivo»: si passa sotto un concetto espresso da qualcuno, si dice solo «Sei un coglione». Ci ho provato a trovare del piacere a dire alla gente che è rintronata per quello che dice, ma in un contesto in cui la stragrande maggioranza dei pensieri è da rintronati, non è mai liberatorio – come in Alien, «Vengono fuori dalle fottute pareti».
A questo punto credo mi si possa obiettare che non si può lasciare che pensieri d’odio, pericolosi per intere categorie di persone, inondino le piattaforme senza nessun argine. Concordo. Ma pensare di fermare l’odio con un tweet verso un singolo utente è come pensare di fermare uno schianto in motorino facendosi il segno della croce. Si possono mostrare i muscoli facendo vedere che la propria squadra è altrettanto numerosa, un’ottima consolazione, ma non sarà un modo per far cambiare idea a qualcuno, soprattutto se il mostrare i muscoli significa essere ugualmente violenti, e sempre considerando che la piattaforma in cui ci si scambia queste opinioni fa a sua volta propaganda di contenuti d’odio, favorendoli rispetto ad altri. Qualcosa di attivo come un cambio di idea si fa in altri posti, con altri mezzi e altri tempi, che non sono quelli di un tweet.
Nell’attesa, ci si deve muovere in qualsiasi altro spazio disponibile, reale o digitale che sia, per tutelare le categorie più colpite dall’odio. Insomma, volevo dire che avevo ragione su quanto commentare fosse tremendo e mi sono fatta il sangue marcio per un mese per niente. Un’esperienza da zero like.