La Stampa, 7 giugno 2025
I mali dell’Amazzonia
Tutto nasce dalle strade. Fino a che non ci sono strade e non c’è infrastrutturazione, la foresta pluviale amazzonica, il polmone del mondo, la madre di tutte le acque, si conserva in perfetta salute e garantisce tutte le sue prerogative che, in un’orgia di antropocentrismo, potremmo chiamare anche “servizi”. Se su questa Terra i viventi respirano, hanno disponibilità di acqua pulita, di aria fresca, di cibo e di medicine, lo devono a questa gigantesca pompa d’acqua che, non incidentalmente, conserva la più grande ricchezza di vita che si possa immaginare. Ecco, questi “servizi”, senza i quali non riusciremmo a vivere, sono sotto la pesantissima minaccia di noi stessi che ne traiamo vantaggio. E tutto ha inizio con una strada. Come la BR 174 o la Transamazzonica, lunghissime fettucce che tagliano il verde intenso della foresta e costituiscono, di fatto, l’inizio della fine.
Funziona così: aprendo una strada la foresta viene immediatamente divisa in un crescendo esponenziale che cresce con il moltiplicarsi delle strade, perché di strade, si sa, non ce ne è mai abbastanza. Alla frammentazione segue il degrado, che rende più facili gli incendi, che rendono più facile il taglio selettivo dei legnami pregiati, che sono il primo passo della deforestazione. Deforestazione che facilita gli incendi e la frammentazione, dunque il degrado dell’intero ecosistema.
Nel dettaglio: alla fine della stagione umida si procede con il taglio a raso e si lasciano sul posto tronchi e rami che si seccheranno e dunque saranno preda facile delle fiamme (dolose) appiccate durante la stagione secca. Così si ottiene un suolo denudato, spoglio, privo di vegetazione che può essere utilizzato per monoculture come la soja (di cui il Brasile è il primo produttore mondiale) e, direttamente o indirettamente, per gli allevamenti animali di bovini (di cui il Brasile produce circa il 25% del totale mondiale). Un suolo però che abbisogna di fertilizzanti, perché poco fertile di natura, e che sarà necessariamente abbandonato in pochi anni. Obbligando così a proseguire nella deforestazione. Un ciclo micidiale.
Le cause della siccità
Sugli incendi bisogna specificare che una foresta in salute, intatta, non permette il propagarsi delle fiamme per via dell’alto tasso di umidità della massa verde anche nella stagione secca. E i criminali del fuoco lo sanno benissimo: per questo prima operano il taglio e poi lasciano sul posto a seccare i tronchi tagliati, per fornire combustibile alle fiamme. Inoltre, negli ultimi vent’anni, il Brasile amazzonico sta soffrendo di una siccità mai registrata prima: l’evapotraspirazione si è ridotta e le precipitazioni sono calate del 20%. Come se si fosse creata una bolla di aria calda e secca che riduce il contributo di umidità proveniente direttamente dall’oceano Atlantico. Quella bolla nasce proprio dai settori di territorio che sono stato deforestati, agevolando tutti i cicli criminali di cui sopra. Se il ciclo dell’acqua sulla foresta viene rallentato, come sta effettivamente accadendo oggi, la foresta tropicale semplicemente non si sostiene e cessa di esistere. Può trasformarsi in giungla o in verde degradato e diventare preda finale di agricoltori e allevatori che la vedono come un grande fastidio alle loro attività lucrative. Così nel 2023 il rio Negro è sceso sotto i 14 metri a Manaus per la prima volta dopo 121 anni, mentre il fumo degli incendi costringeva a restare in casa e tutti hanno toccato con mano cosa sta accadendo.
Ma come è possibile che siano consentite deforestazione, taglio a raso e infrastrutturazione nella foresta amazzonica? La foresta non è pubblica, non appartiene allo Stato? Qui sta il nocciolo del problema, quello che si chiama conversione illegale della foresta, il vero male dell’Amazzonia. Il primo passo è la deforestazione al di fuori della legge: avviene attraverso un iniziale taglio selettivo dei legnami più pregiati, che costituiscono reddito immediato nei Paesi dove non vigono divieti all’importazione di legno non certificato. A questo succede il “correntao”, il taglio a raso, spesso effettuato da trattori che trascinano catene di ferro e radono al suolo tutto ciò che è albero. Infine partono gli incendi che, per le ragioni viste prima, si propagano con estrema facilità.
A questa prima fase illegale distruttiva ne segue una decisamente criminale e truffaldina, l’appropriazione indebita di terre attraverso la produzione di titoli di proprietà totalmente falsi (qui si chiama “grilar"). Le terre così rubate alla proprietà collettiva o agli indigeni vengono “lavate” attraverso prestanome ultrapoveri che si vendono per un piatto di lenticchie e grazie alla complicità di funzionari statali corrotti, svenduti anch’essi per poco di più. Per questo la deforestazione è una questione di democrazia sana: se non ci fosse corruzione sarebbe di fatto impossibile.
In una terza fase si procede con una legalizzazione completamente fittizia che permette la registrazione di aree ormai degradate che possono a quel punto godere di cambi di destinazione d’uso: se non c’è più la foresta, perché non si dovrebbe coltivare o allevare? Così si invadono e si conquistano anche le aree protette e le riserve naturalistiche, teoricamente intoccabili, almeno fino a che sussiste la natura da proteggere; se, invece, è stata distrutta, a che pro tutelarle?
Il passo finale è la trasformazione in pascolo (75%) o in monocultura di territori rubati ai proprietari legittimi e alla foresta pluviale. Mangiare una bistecca brasiliana vuole dire mangiare un pezzetto di Amazzonia, nonostante qui ci siano molti pascoli liberi (45%) rispetto agli allevamenti intensivi e sia in vigore una legislazione molto restrittiva in termini di somministrazione di additivi agli animali. Con questo gioco si aggira la legge, peraltro debole, e si assaltano le terre indigene. Ma il primo passo è sempre la costruzione di una strada: dove c’è una strada la foresta perisce e noi tutti perdiamo la possibilità di vivere meglio. Mentre qualcuno si arricchisce concentrando ricchezza come in poche altre parti del mondo.
Le colpe dei conquistatori
Ma dobbiamo ancora porci a una domanda: a chi appartiene l’Amazzonia? A tutti noi, si potrebbe dire, come il Colosseo, che non è evidentemente solo dei romani, che non potrebbero farne un parcheggio multipiano, per dire, solo perché strangolati dal traffico. Questa sarebbe solo una risposta moderna, però, perché, in realtà, l’Amazzonia appartiene a chi in questo territorio abita da almeno undicimila anni e qui si è stabilito in uno straordinario connubio di vegetazione, fauna e sapiens che è durato da qualche migliaio di anni fino a oggi. Oltre 180.000 indigeni di almeno 60 etnie vivono sul 30% del territorio amazzonico in circa 170 “terre indigene”. Sono i residui di quando l’Amazzonia contava forse 7 o 8 milioni di indios, con una densità che solo attraverso le ultime scoperte archeologiche possiamo far salire fino a quasi 3 abitanti/kmq. Noi conquistatori ci siamo raccontati di aver scoperto il Sudamerica o il Brasile come se fossero stati deserti, ma la realtà è che abbiamo rubato quei territori a chi qui già risiedeva con la violenza estrema. Con le armi, l’acciaio, i cavalli e le malattie abbiamo ridotto a un millesimo la grande nazione indigena, l’abbiamo schiavizzata e meticciata e l’abbiamo usata come forza lavoro per il capitalismo commerciale prima e industriale dopo: una vergogna che abbiamo difficoltà a incorporare e a rimediare. —