Tuttolibri, 7 giugno 2025
Coscienza ed erranza C’è tutto il Novecento in un giorno di giugno
Il Joyce di Edna O’Brien, brillantemente tradotto da Enrico Terrinoni e Fabio Pedone, non è soltanto un’affascinante biografia di Joyce: è il romanzo della vita di Joyce, raccontato da una grande scrittrice, anche lei irlandese, ma venuta dal mondo rurale dell’Irlanda, mentre lui era cresciuto nella realtà urbana di Dublino, la città, disse Joyce, che se fosse andata distrutta in un qualche cataclisma avrebbe potuto essere ricostruita fedelmente in base a ciò che lui ne aveva scritto in Ulisse. Entrambi irlandesi, entrambi fuggiti in volontario esilio dall’Irlanda, bigotta e soffocante, entrambi accusati di oscenità per i loro scritti – così come lo fu, in misura minore, Samuel Beckett, il più autorevole di tutti gli ammiratori di Joyce, lo scrittore che, secondo lui, per la lingua inglese aveva la stessa importanza fondante che Dante aveva avuto per la lingua italiana.
O’Brien dedica buona parte del suo libro a infanzia, adolescenza e prima giovinezza di Joyce. Ne sottolinea gli interessi culturali manifestati sin da fanciullo e l’ambiente famigliare pesante, con una madre religiosissima, vittima di diciassette gravidanze, e un padre violento e temuto, che una volta cercò di strangolarla; ma Joyce «lo stese con un pugno e lo tenne fermo, mentre la madre scappava a casa dei vicini». Con il passare degli anni i Joyce, sempre più poveri (alla fine la dieta consisteva in tè e pane fritto), cambiarono spesso abitazione, andando a vivere in alloggi sempre più piccoli e malsani in diversi quartieri di Dublino, cosa che, suggerisce O’ Brien, gli fece conoscere così bene la città che avrebbe poi immortalato nelle sue opere.
Rispetto alle biografie canoniche, O’Brien dà molta più importanza alle figure della madre e di Nora, la donna della sua vita. La madre lo adorava, mentre lui, come risulta dalle lettere che si scambiarono, aveva un atteggiamento egoista, arrogante, a volte quasi sprezzante nei confronti di lei. Le lettere della madre, un flusso di parole quasi senza punteggiatura, costituiscono l’ispirazione stilistica, dice O’Brien, per il famosissimo ultimo capitolo di Ulisse, il “flusso di coscienza” di Molly – fermo restando che è da Nora che scaturisce «non poco della libido di Molly».
Nora, una cameriera che veniva da Galway, la cittadina dell’estremo ovest dell’Irlanda, è l’altra figura di donna a cui O’Brien giustamente dedica ampio spazio nel suo romanzo biografico. Così come lo dedica a Sylvia Beach, l’americana che gli fece pubblicare Ulisse, e a Miss Weaver, la sua mecenate, che «diede fondo al suo capitale» per poter mantenere Joyce e la sua famiglia. Il rapporto di Joyce con le donne, con le prostitute, con le sue studentesse, con le signorine e signore con cui entrò in rapporto (c’è quasi da stupirsi che Joyce non sia stato messo all’indice in nome del politicamente corretto) sono, per usare l’espressione usata da T. S. Eliot a proposito del drammaturgo Thomas Middleton, “fotografate” da O’Brien: nessuna accusa, nessuna assoluzione. Per la supposta oscenità dei suoi lavori Joyce fu messo sotto accusa da giudici e letterati (e infine assolto). Che dire della supposta oscenità dei suoi comportamenti privati? Per quanto riguarda il suo rapporto con Nora, dice O’Brien, il potere di lei su di lui «era fuori discussione e quello che aveva sulla sfera sessuale era sopraffino».
Le esperienze di vita londinese sono puntualmente messe in rapporto con molti degli episodi che compaiono nelle pagine del Ritratto dell’artista da giovane e di Ulisse, di cui O’Brien fornisce una sorta di riassunto più illuminante di quello offerto in molte dotte letture del romanzo. E questo vale anche per come presenta Finnegans Wake, La veglia di Finnegan, il libro a cui Joyce lavorò per quasi vent’anni, dal 1923 al 1938, portando agli estremi la sua totalizzante sperimentazione linguistica. Ovviamente è centrale l’attenzione per Ulisse, il libro che forse ha il più basso numero di lettori rispetto al numero di copie vendute; e che ha il giovane artista Stephen Dedalus come figura centrale della sua prima parte, la “Telemachia” (la seconda è intitolata “Odissea”, la terza “Nostos"). Il rifiuto di Joyce delle forme narrative tradizionali lo indusse a cercare (e a trovare) nello schema omerico la griglia entro la quale organizzare la sua sperimentazione linguistica e le tecniche narrative che caratterizzano il romanzo. Stephen corrisponde al figlio Telemaco del poema omerico, mentre il padre, il moderno Ulisse, compare più tardi sotto le spoglie di Leopold Bloom, piccolo “ebreo errante”, marito di Molly, cantante lirica e moglie infedele, a differenza dell’eroicamente fedele Penelope. La scelta di Joyce di avere come protagonista nella Dublino cattolica e protestante il figlio di un ebreo ungherese emigrato in Irlanda è in piena sintonia con il fatto che, secondo lui, Ulisse era «l’epopea di due razze (Israele-Irlanda)»; questo perché, dice O’Brien, Joyce si era immedesimato «con la condizione degli ebrei, “la prima razza che aveva errato per tutta la terra”, fratelli nelle disgrazie di Joyce l’errante».
Dopo i primi tre capitoli del romanzo Stephen esce di scena e lascia il posto (con l’inizio della seconda parte, “Odissea") alla figura di Leopold Bloom, il padre, che lasciata a casa la moglie ancora addormentata, impiega la sua giornata di lavoro e di svaghi per le strade, gli uffici e i bordelli di Dublino fino a quando, giunta la sera, si ritrova con Stephen, ubriaco, e lo invita a casa sua. Qui incomincia la terza parte, “Nostos”, il ritorno. Ma poi Stephen se ne va e Bloom, coricatosi a letto, fa l’inventario dei corteggiatori che la moglie Molly ha avuto (i Proci), le bacia entrambi «i meloni del sedere», svegliandola, e le racconta la sua giornata. Dopo di che si addormenta. Dopo questo episodio, il romanzo si conclude con quello intitolato “Penelope”, affidato allo stream of consciousness di Molly, il vertice dell’invenzione linguistica joyciana. Invenzione linguistica e al tempo stesso innovazione tecnica e soluzione narrativa rivoluzionaria, con quel fiume di parole reso attraverso otto lunghissime frasi senza punteggiatura per un totale di circa quaranta pagine. Il mescolarsi dei pensieri, dei ricordi, dei desideri, delle immagini che affollano la mente di Molly danno vita a quel flusso di coscienza che costituisce uno dei più rivoluzionari segni distintivi della scrittura modernista. E che rappresenta il vertice della dirompente invenzione linguistica joyciana, caratterizzata da quei giochi di parole, acrobazie verbali, echi letterari, prestiti da altre lingue, accostamenti imprevedibili, che percorrono come fuochi d’artificio le pagine del romanzo.
A differenza degli anni trascorsi da Ulisse per i mari e le terre più lontane, le “avventure” di Bloom occupano un solo giorno, quello del 16 giugno 1904. Un giorno qualunque, ma importante per la storia personale di Joyce: è quello in cui ebbe il primo contatto fisico con Nora (che lo masturbò), la ragazza che aveva conosciuto pochi giorni prima e con cui visse per tutto il resto della sua vita. Il 16 giugno, Bloomsday, il giorno di Bloom, è diventato il giorno in cui gli ammiratori di Joyce rendono omaggio al piccolo “ebreo errante” e al suo creatore nelle forme più diverse: ad esempio, per chi è a Dublino, percorrendo l’itinerario compiuto da Bloom nella sua giornata, oppure, sia nella capitale irlandese che altrove (Asti compresa), proponendo la lettura, a turno, delle pagine dell’intero romanzo, inscenando gli episodi che meglio si prestano a una loro drammatizzazione, organizzando conferenze e dibattiti. Da trent’anni a Dublino viene organizzato un Bloomsday Festival, che però dura un’intera settimana, quella al cui interno cade il 16 giugno. In questo caso prevale l’Ufficio per il Turismo, ma altrove non così, da più di cento anni. Lo sappiamo da una lettera che Joyce scrisse a Miss Weaver il 27 giugno del 1924: c’è stato un gruppo di persone, le disse, che hanno celebrato quello che chiamano Bloom’s Day (non è un refuso: Joyce scrisse proprio così).