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 2025  giugno 07 Sabato calendario

"La sparo grossa: per i maschi la guerra continua ad avere un interesse viscerale"

Intervista pubblicata su Tuttolibri nel 1995
Presunzione luciferina? «Forse solo incoscienza», dice Alessandro Barbero, 36 anni, medievista tra l’università di Tor Vergata e quella di Torino, allievo di Tabacco, esordiente per Mondadori con il romanzo storico settecentesco yankee-prussiano Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo. Dieci anni di lavoro, prima come puro relax poi in full immersion nelle fonti, la fine di un teorema politico-militare apparentemente invincibile sbriciolato dall’89 francese più che da Napoleone, raccontata nell’arco di tre mesi, estate e autunno 1806, Jena e Auerstedt, da un reazionario federalista antijeffersoniano bon vivant spedito da Washington a Berlino e dintorni, Varsavia e Weimar per spiare (poco) tra la reggia di Federico Guglielmo III, taverne, bordelli e salotti ebraici, Fichte e Hoffmann, Clausewitz e Goethe, in un limpidissimo «movimento» mozartiano di ufficiali e cortigiani, bas bleu e pfennig («una società in cui potevi avere tutto ma dovevi pagare tutto») costruito con una «lingua italiana eretica, quella purgata dai paludamenti sacerdotali del dogma aulico, cioè antilibresca, cioè viva» come la definisce Busi, suo scopritore e nume.«...Nella casa le cui finestre erano state tutte spalancate, il conte Kalckreuth sedeva a far colazione con un arrosto freddo e una bottiglia di Madera, servito da un lacchè in livrea...»: fuori i prussiani in ritirata. Forte il rischio, comunque. Il romanzo storico, con l’eccezione Eco, è una sorta di corpo estraneo in Italia. E per di più, leggendo Barbero, come non pensare a Langendorf? Una bella sfida nella quale Barbero per ora ha battuto, almeno sul tempo, il narratore ginevrino che ha concluso ma non ancora dato alle stampe il suo saggio, già famoso prima di essere letto, sul pensiero militare prussiano tra illuminismo e romanticismo (e che si suppone l’amico Calasso vorrà per Adelphi). Mentre con Langendorf lo scrittore italiano può dirsi invece alla pari sulla mole, entrambi hanno prodotto un monstrum di 650 pagine che spaventa Langendorf ma non Barbero, né il suo editore, e meno che mai il suo «sponsor».
«Volevo scrivere l’iper-romanzo storico, l’avventura immaginaria di Pyle è talmente realistica che sin dove è stato possibile controllare, anche il clima è quello vero di quei giorni. Infine, sì, ho scritto un romanzo maniacale». «Sicuramente. Barbero è come quello che costruisce le cattedrali con i fiammiferi», conferma Gian Arturo Ferrari, il patron della Mondadori che ha peraltro accolto all’istante nella sua interezza il manoscritto fortemente sostenuto da Busi il quale più esclamativo non avrebbe potuto essere: «... Sterne, Casanova, Laclos in italiano! E un tocco di Goldoni! Mio dio, come è possibile che esista un oggetto linguistico simile! Ma questo è il libro sul Settecento di Eco se Eco sapesse scrivere!». Eco naturalmente non rispose.
L’incontro con l’autore di Cazzi e canguri (pochissimi i canguri) è stato una sorta di accelerazione vitale per il filiforme e gentile professorino torinese, studioso di nobiltà francese e subalpina quanto appassionato di storia militare, trapiantato a Pinerolo, ma non per «cavalleria», piuttosto per amore (di una ex ragazza di campagna, sua moglie e cardine della sua esistenza).
Ma, come è avvenuta questa epifania editoriale?
«Attraverso le prime 50 pagine del romanzo recapitate da un corriere, giusto un anno fa e non solo a Busi. Anche a Bufalino, a Masolino d’Amico, a Grazia Cherchi, a Cotroneo. Dei cinque si fecero vivi solo Busi, immediatamente, e Bufalino che, dichiarandosi troppo indaffarato e non abbastanza in salute per occuparsi direttamente di me, mi consigliava di rivolgermi, e non a caso, alla Bompiani. Busi mi chiede o meglio m’impone (con mia estasi...) in una sorta di crescendo, dopo aver letto il resto del libro, di lasciarne completamente affidata a lui la gestione, come in precedenza era accaduto soltanto per la Covito. E, precisando che “questo libro voglio farlo pubblicare. Sarà la mia Austerlitz"».
Come “il grande Corso” si muove fulmineamente. Non s’incontrano mai, si parlano soltanto al telefono: «Ma già a novembre ’94 mi convocano a Segrate, Busi detta le condizioni: non si deve tagliare neppure una riga, bisogna pagare bene». Così avviene, maestro qual è lo scrittore bresciano anche nel tenere alto il prezzo dei suoi beniamini. Non saranno i 100 milioni di anticipo più il 15% di diritti da lui ipotizzati come sfida, ma la partenza è alta, sotto tutti i punti di vista, l’editing del romanzo è affidato proprio alla Covito che, esperta del secolo dei lumi e di letteratura libertina in particolare, «con un’analisi estremamente rigorosa mi ha aiutato, tra l’altro, a depurare il testo di scorie troppo arcaiche». Sicché il Grand Tour prussiano di Mr. Pyle del quale si finge che il romanzo sia il diario, «scritto quindi da uno che non sapeva come sarebbero andate a finire le cose», si dipana, attraverso una scrittura «che non vuole per nulla imitare l’italiano dell’epoca, una lingua moderna ma classica dove nessuna parola non potesse essere stata usata anche allora e dove affiorasse la convenzione d’un testo tradotto dall’inglese». Sebbene tra i suoi veri ispiratori Barbero riconosca soprattutto i viaggiatori del ’700, De Brosses e compagni oltre allo Sterne del Viaggio sentimentale, «specie nella traduzione di Foscolo gioiello nel gioiello».
È così?
«Ho cercato di rendere il senso dell’esperienza vissuta, il giorno per giorno, gli aspetti della fisicità, in modo che quest’esperienza si concretizzasse senza lasciarla però appesantire da troppi dettagli perché la fluidità, il divenire erano parte integrante del progetto».
Mr. Pyle è un americano molto europeo e libertino che confessa di aver passato in Inghilterra i suoi anni migliori e che arriva in Prussia, mandato da un governo filoinglese e preoccupato di bloccare Napoleone, portando la propria educazione antimilitarista nel cuore del militarismo. Attraverso la «bella vita» del diplomatico con incontri straordinariamente descritti, dalla piccola Lenchen, deliziosa prostituta con un segno rosa sul fondoschiena, a Fichte incocciato nel negozio di frutta e verdura della Alexanderplatz e che, invitato lo straniero a una detestabile cena in casa sua, non fa che tuonare contro gli ebrei, allo spietato sfottò del povero Jean-Paul, alla lunga conversazione a Jena con Goethe in veste di ministro del duca di Weimar, Pyle si trova poi stretto tra le cannonate. E in queste ultime duecento pagine, le più felici e tolstoiane del romanzo, la temperatura del protagonista, sino a quel momento raffreddata, sale quanto basta per dare la misura del disastro e insieme della «bellezza» della guerra. Sicché il «gioco» è, non soprattutto ma «anche», di guerra, oltre che «militare».
Perché la scelta di questo tema, e i luoghi e l’epoca?
«Perché mi affascinano le strutture organizzate, il tentativo umano di creare organismi complessi siano politici che militari, ma soprattutto il loro fallimento. A me interessava proprio veder fallire la Prussia come monarchia militare filosofica ecc. Non per niente il romanzo finisce con la battaglia. Del travaglio interiore che ha accompagnato poi le riforme in Prussia non m’importava nulla, era un epilogo che volevo raccontare, non una rinascita».
Strutture organizzate che, nella loro massima deformazione, possono chiamarsi nazismo. E nel libro le avvisaglie non mancano, come viene sottolineato nella parte dedicata agli ebrei che la società prussiana denigra e cerca in ogni modo di tenere ai margini.
Un sistema di questo tipo non richiede una condanna totale, senza eccezioni?
«È chiaro. Io non ho certo dubbi su questo. Ma non avrei potuto, da storico qual sono, non documentare l’importanza degli ebrei sulla scena berlinese di quel momento e il livello di antisemitismo da cui era segnata, a cavallo del secolo, l’Europa centro-orientale. Busi stesso mi ha rivolto questa domanda arrivando alle pagine del libro in cui il nodo ebraico si presentava altamente drammatico. Gli spiegai che un personaggio come il mio protagonista, se volevo disegnarlo credibilmente, un certo disgusto per gli ebrei doveva esprimerlo. Mi auguro di non venir frainteso». Un modo di riportare a una sorta di lettura del presente.
Altrettanto si può dire della guerra? Barbero, ex giovane iscritto alla Fgci e che si dichiara uomo di sinistra, ama la guerra? Ma ce la offre soltanto come gioco, come puro esercizio d’intelligenza?
«Il gioco della guerra è diffusissimo, almeno tra i maschi della mia generazione. E adesso la sparo grossa: per un maschio la guerra continua ad avere un interesse non dico primordiale o viscerale, ma certo molto forte, coinvolgente. Da bambino, anche in anni di pacifismo esasperato, io giocavo con i soldatini, oggi con mio figlio gioco agli indiani e, non senza una certa violenza, lui mi ammazza abbastanza spesso. Ma è un gioco appunto tranne che in casi patologici. Un gioco mentale affascinante. Fuori dal gioco è evidente che sono con la contestazione contro la guerra. Tuttavia, da realista, mi sembra impensabile l’idea che dopo un disastro come la seconda guerra mondiale non si farà mai più una guerra (quante ne abbiamo avute in questi 40 anni?), che si possa ipotizzare oggi uno Stato privo di una forza militare. Ecco è il pacifismo totale, il pacifismo di estrema sinistra che mi dà fastidio. In un romanzo storico come il mio esistono, comunque molti altri rimandi. Un esempio? Qualche allusione letteraria: può non essere ovvio, per esempio, trovare Hoffmann, ubriaco, a Varsavia. Qualche puntualizzazione: può essere utile incontrare un Clausewitz, immediatamente associato, da chi non lo conosce, al militarismo prussiano e addirittura al nazismo, svelato come il timido, il romantico, disgustato dai teorici militari. E qui rivendico il diritto di spiegare che il mio non è un libro di guerra anche se dalla guerra non si poteva prescindere disegnando la fine di un’epoca, ragione e scopo del mio lavoro».
Nella caduta dei grandi sistemi, c’è la storia del mondo. Quale poteva essere, allora, la seconda tappa di Alessandro Barbero narratore? Un romanzo, già in opera, ambientato nell’Urss di Gorbaciov, tra Mosca e Baku nell’Azerbaijan: «Perché i problemi di due secoli fa dell’Europa centro-orientale, i nazionalismi, l’antisemitismo, sono quelli di oggi e saranno ancora per un bel po’ quelli di domani».