Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  giugno 06 Venerdì calendario

Intervista a Mauro Corona

Siamo in una baita in cima alla montagna. Scende la sera. Fuori saltano i cervi. Sotto di noi, la diga del Vajont. Mauro Corona beve solo birra, si sta preparando agli esami per riavere la patente. 
Mauro Corona, qual è il suo primo ricordo? 
«Io e mio fratello, bambini, nella casa dei nonni, giù nel paese a Erto. Il fuoco acceso sempre, anche d’estate. Odore di fieno e di legno». 
Com’era suo nonno Felice? 
«Un vecchio alto quasi due metri. Con il legno faceva ciotole, cucchiai, vasi. Avevo nove anni quando mi diede mezzo bicchiere di vino: “Fa sangue” mi disse». 
Suo padre, «Meni», beveva da tempo. 
«Bevevano tutti. Ma mio padre quando era ubriaco picchiava prima noi, poi mia madre Lucia. Tre volte la mandò in coma. Un giorno lei se ne andò. La vidi salire su un furgoncino rosso. Io avevo sei anni, mio fratello Felice cinque e Richetto, il più piccolo, solo quattro mesi. Era il 1956. Sarebbe tornata sette anni dopo». 
Sua madre aveva un altro uomo? 
«Non penso. Se ne andò perché non reggeva più le botte di mio padre, la miseria. Tornò subito dopo il disastro del Vaiont. Lo sapemmo da zia Cate. Un giorno ci chiamò e ci disse: “Canais, l’è torné vostre oma”, bambini, è tornata vostra madre». 
Tornò a casa con voi? 
«No, andò a stare dai suoi. Mio fratello Felice andava a trovarla ogni tanto. Io per un anno e mezzo non volli vederla, anche se abitavamo a due passi. Stavo con mio nonno, che mi aveva insegnato a scalare le montagne, a intagliare il legno e a cacciare nei boschi». 
Il primo colpo di fucile? 
«Avevo dodici anni quando sparai a un camoscio. Non bastava: la prima volta dovevi anche bere il sangue dell’animale. Era un rituale, come quello del taglio delle code dei galli forcelli. Sono a forma di lira, le vendevamo alle bande musicali del Tirolo, le mettono ancora oggi sui cappelli». 

Nel 1963 una frana nell’invaso fece tracimare le acque del Vajont. Erto venne colpita, Longarone dissolta. 
«Avevo tredici anni, ricordo soprattutto il rumore. Immaginate trecento milioni di metri cubi di ghiaia che piovono in venti secondi. Un lampo di rumore, poi non si vide più nulla. Tutto diventò buio. All’alba, giallo. Non c’era più un albero. Nessuno sapeva che cosa stesse succedendo». 
I soccorsi. 
«Arrivarono gli elicotteri. Non ne avevo mai visto uno. Corsi a piedi giù in valle, mi misero a forza a bordo. Ci presi gusto, tornai giù, mi ripresero. La terza volta mi riconobbero e mi presero per l’orecchio». 
Morirono 1917 persone. Lei nel romanzo «Le altalene» scrive: «Quella notte la montagna inciampò negli ingegneri». 
«Nei geologi, nei tecnici, nei poteri. Morti sopra, morti sotto, superstiti fuggiti e silenzio. Si inventarono un tariffario della perdita: il figlio unico valeva più del figlio con un fratello. Speculazioni: uno prendeva i soldi della ricostruzione per aprire una fabbrica, alzava un muro e spariva. C’è stato chi si è messo a fare il sopravvissuto di professione. La verità è che siamo diventati tutti fantasmi, i vivi e i morti. Con i Maya hanno impiegato decenni. Con noi, tre minuti». 
La prima montagna. 
«Nemmeno dieci anni, mio nonno mi disse: “Andiamo sul monte Cevìta”. Cominciammo a salire, poi si fermò. Il vecchio alzò un dito grosso come una salsiccia e indicò un punto a caso: “La jo sta l’Austria”, laggiù c’è l’Austria. Suo fratello ci aveva trascorso trentadue anni a fare il boscaiolo prima di morire travolto da un faggio. In cima mio nonno non ci arrivò mai: si era portato dietro due litri di vino, si addormentò prima». 
Lei però ci arrivò. 
«La vetta era un approdo sacro. Mi aspettavo che una volta lassù avrei visto il nulla, che finalmente mi sarei liberato del mondo, ma no: in cima si vedevano altre vette, altre montagne. Capii che scalare è non finire mai». 
Ci vuole precisione per arrampicare. 
«Come per scrivere e per intagliare il legno». 
A settantacinque anni lei scala ancora. 
«Poco tempo fa ho fatto un’arrampicata senza protezione, a mani nude. Io lo so bene che un giorno commetterò un errore, che qualcosa mi sfuggirà e che morirò». 
Corona, lei crede in Dio? 
«Sì, ma non a chi gli sta intorno. La mia fede non cola dai candelabri. Papa Francesco la pensava come me. Un giorno lo invitai a dire messa qui, tra i fantasmi del Vajont. Lui mi rispose: “Non dipende da me, Corona, comandano altri”». 
Come immagina l’aldilà? 
«Mia nonna diceva che l’anima è una medaglietta che quando muori vola via. Io penso che un giorno il corpo si disfi, ma che resti tutto il resto: quello che abbiamo fatto, detto, pensato, amato, odiato. Tutto questo va a calarsi in qualche nicchia del cosmo e lì resta per sempre, vibrando». 
Ha paura della morte? 
«Sì, ho paura. Ho paura del dolore fisico, perché lo conosco. Avevo un amico che non reggeva più nemmeno la morfina, si stava contorcendo dal male. Bestemmiai e dissi al medico: “Sparagli, sta soffrendo troppo”. Mi prese per matto, ma io amavo il mio amico e so che cosa significa quando precipiti giù dalla montagna e ti rompi le costole, una spalla». 
Suo padre la picchiava pesantemente? 
«Vedete questo taglio sulla mano? Me lo fece lui con un coltello. Mio padre e mia madre se ne andarono quasi assieme, a 87 anni, nel sonno. Un giorno freddo. Alle sette di sera io e papà bevemmo un litro assieme, poi lui si mise a letto. Non si svegliò più. Così fu per mamma, qualche tempo dopo. Hanno fatto una morte troppo garbata». 
Esiste una bella morte?
«Sì, quella raccontata da Tolstoj in Guerra e pace: “Vide accanto a sé una bandiera e disse: ecco una bella morte”». 
Suo fratello Felice non fece una morte garbata. 
«Era bello, alto, capelli folti. Se ne andò in Germania a fare il gelataio. Dalle nostre parti il gelato è una tradizione: già nell’Ottocento raccoglievano gli avanzi di neve e ghiaccio delle valanghe, ci aggiungevano frutta e quello era il dolce. Poi nel secolo scorso cominciarono ad andare all’estero. Alcuni diventarono ricchi. Mio fratello Felice tentò la fortuna. Lo ritrovarono morto, in una piscina di Paderborn. Tutto intorno, cocci di bottiglia. Un delitto. Non ho mai saputo che cosa sia successo davvero». 
Venne aperta un’indagine? 
«No, ma i proprietari del ristorante dove lavorava nemmeno si presentarono ai funerali. Povero Felice. Quando riesumammo il corpo, per cambiargli posto al camposanto, aprimmo la bara di zinco e quasi non ci credevo: era rimasto tale e quale, la pelle liscia, appena scolorita dalla morte. Un colpo di vento gli scompigliò i capelli. Piansi». 
Il vino. 
«Sono ancora vivo. Ma ci sono stati anni in cui sono arrivato a scolarmi da solo una intera bottiglia di whisky al giorno dopo essermi fatto dodici birre e un litro di vino. Dai venti ai ventotto anni, quasi tutti i giorni così». 
Come fa a essere vivo? 
«Ho la fortuna che quando bevo poi al mattino non mi sveglio male. E brucio, brucio tanto. In quegli anni folli, nelle mattine dopo le ciucche, andavo a fare tre ore di corsa in salita. O a scalare una montagna. A un certo punto, sei anni fa, smisi di bere. Ma il problema è che mi annoiavo». 
Perché? 
«Perché io sono uno di paese, uno che vive di rituali semplici: la mezza marsala con l’amico, quello che arriva e che ti racconta della vacca che ha partorito. Sono queste le cose che io temo di perdere con la morte, quelle piccole abitudini che ti mantengono vivo». 
Così ricominciò a bere. 
«Arrampicavo con Manolo (Maurizio Zanolla, pioniere dell’arrampicata libera, ndr) e dai un bicchiere e dai un altro. Ho provato ancora a smettere, negli anni successivi, ma niente». 
L’alcol aiuta a scrivere? 
«Molti dei miei libri sono nati così. Storia di Neve è nato da undici mesi di sbornie notturne». 
Oggi? 
«Bevo ma molto meno rispetto a prima. Mi hanno tolto la patente, guida in stato di ebbrezza. La devo riprendere, in questi giorni ho gli esami». 
Quanti processi ha avuto? 
«Una quindicina. Tre per bracconaggio, due per ubriachezza molesta, uno per bestemmie in luogo sacro e uno per sequestro di persona, vado a memoria». 
Sequestro di persona? 
«Ero giovane e bevevo tanto. Decisi che la notte di Natale avrei portato in chiesa un ateo. Ma lui non ci voleva venire. Lo trascinai dentro a forza e mi misi a bestemmiare. D’altra parte, portando un ateo in chiesa avevo fatto opera buona secondo i preti, no? Ma il processo più grave fu quello per danneggiamento ai beni dello Stato e terrorismo». 
Cioè? 
«Da queste parti negli Anni Ottanta vinceva sempre la Dc, io ero di sinistra e così lanciai delle molotov nelle urne. Avevo la tessera di Rifondazione comunista». 
L’ultima volta per chi ha votato? 
«Per Michele Santoro». 
E Giorgia Meloni le piace? 
«Lei sì, meno le persone di cui si circonda. Ho anche il suo cellulare personale, ogni tanto ci mandiamo messaggini». 
Bianca Berlinguer. 
«Tutto cominciò per caso. Mi invitarono una volta in trasmissione, Cartabianca era ancora in Rai. Avevo bevuto, feci casino, piacque tanto, gli ascolti si alzarono. Cominciarono a richiamarmi fino a quando mi proposero un contratto». 
Poi lei disse «zitta gallina» alla conduttrice e la fecero fuori. 
«Lo decise Franco Di Mare, che peraltro era anche amico mio, era venuto più volte qui, aveva i miei libri con dedica. Ma non gli ho mai portato rancore: quando Franco si ammalò gli mandai un messaggio dicendo che ero a disposizione per indicargli bravi medici. Mi ringraziò con affetto. Però...».
Però? 
«Nessuno si è accorto che quella non è stata l’unica volta in cui ho detto “gallina”». 
Racconti. 
«Quando tornai in trasmissione, dopo la sospensione, io citai in diretta Leopardi: “Passata è la tempesta, odo augelli far festa”. Sapete come continua? “E la gallina, tornata in su la via...”. Ma nessuno, a quanto pare, conosce Leopardi perché non ho ricevuto proteste». 
Qual è stato il più grande dolore della sua vita? 
«Quando uno dei miei figli mi disse: “Papà, mi tocca morire”. Ho quattro figli e tre di loro hanno dovuto superare un brutto male. Una, Marianna, ha raccontato l’esperienza del tumore al colon nel libro Fiorire tra le rocce. Come si può pensare di sopravvivere a un figlio?». 
Marianna, Matteo, Melissa e Martina. Come ha scelto i loro nomi? 
«Vengono da legami familiari. Melissa, per esempio, era una bisnonna un po’ strega. Marianna la sorella di mia nonna. Martina, detta Tina, una zia».
Nel documentario a lei dedicato, «La mia vita finché capita», di Niccolò Maria Pagani, lei dice che Matteo ogni tanto fa lo spavaldo con il padre. 
«Ma è stato lui che una volta è venuto a recuperarmi durante una delle cadute più rovinose, in montagna. Erano i mesi del lockdown, uscii per andare a fare scialpinismo. Neve morbida, freschissima. Un branco di camosci mi distrasse e così caddi non so per quanti metri. Mi ritrovai chissà dove, dolori dappertutto. Mio figlio mi venne a prendere, voleva chiamare i soccorsi ma io ero fuorilegge: la montagna stava in un’altra regione, in quel periodo non si poteva sconfinare». 
Un’altra volta in cui ha rischiato la vita? 
«Me lo ricordo bene, era sul monte Lodina. Cambiai direzione d’istinto, c’era una lastra di ghiaccio. Cominciai a sentire un rumore sordo, capii che stavo per essere investito da una valanga. Mi ritrovai impietrito dalla paura, con un pensiero solo: “Ecco, sto per morire sul monte Lodina”. La valanga mi travolse e poi mi sputò fuori, come Giona dal ventre della balena. Gli sci li ritrovai a luglio, accartocciati. Quando mi risvegliai, scoprii che a soccorrermi era stato un parente di mia moglie». 
Lei si è sposato in chiesa? 
«Sì, ma scappai dall’altare». 
Come? 
«Quando il prete, il caro don Stival, mi disse che avrei dovuto ripetere la formula “Prometto di esserti fedele sempre”, dissi che non era una cosa possibile, nemmeno sul piano teologico. Perché, per esempio, anche solo con il pensiero si può essere infedeli. Così mi stufai, uscii e andai al bar. Quando rientrai il prete si era rassegnato e mi fece dire solo “sì”». 
Lei ha studiato teologia? 
«A quattordici anni mi mandarono dai Salesiani in collegio. Terribile. Una disciplina militare, un dolore interiore indicibile perché sono stato costretto a stare quattro anni lontano da quello che per me è vita: i boschi, i torrenti, i camosci, gli alberi, il legno. Però avevo i libri». 
Lei era già un lettore forte? 
«Mio padre non ha mai letto un libro in vita sua, ma mia madre sì. Quando se ne andò ci lasciò una pila di romanzi che io cominciai a leggere a dieci anni: Guerra e Pace, L’Idiota, L’uomo che ride. Da allora non ho più smesso di leggere e prima ancora che uno scrittore io mi considero un lettore. Fu così che cominciai, poco per volta, a scrivere». 
I primi racconti? 
«Me li chiese un giornalista per il Gazzettino. Poi quando nacquero i miei figli scrivevo delle storie per loro. Provai a farle leggere a diversi scrittori friulani ma tutti, a parte Carlo Sgorlon, mi dissero di lasciar perdere. Così un giorno, ubriaco, bruciai tutti i racconti e per sbaglio con questi anche l’album di nozze». 
E poi? 
«Marisa Madieri, la moglie di Claudio Magris, li aveva letti. Le erano piaciuti e una volta mi chiese di mandarglieli, voleva farli pubblicare. Ma io non li avevo più. Così li riscrissi da capo, perdendo qualcosa e qualcosa trovando. Lo feci apposta per lei e in questo modo diventai uno scrittore. Nacquero così sia il primo racconto lungo, Il soffio del gallo forcello e poi il primo romanzo, uscito per Vivalda, Il volo della martora». 
Suo padre che cosa disse quando lei pubblicò il primo romanzo? 
«Lo prese e lo buttò nel fuoco». 
Lo ha perdonato? 
«No». 
Chi è il più grande scrittore italiano? 
«Claudio Magris. Volli a tutti i costi la sua prefazione a Il volo della martora». 
E il più grande scrittore in assoluto? 
«Potrei dire García Márquez, ma mi vengono in mente anche Platonov, per non parlare di quelli con cui sono cresciuto, da Victor Hugo a Tolstoj. Tra i viventi il più grande è Javier Cercas. Alcuni libri di Roberto Bolaño mi hanno fatto stare sveglio fino all’alba». 
Lei dorme poco. 
«Tre ore per notte, più o meno. Dormo dalle cinque del mattino alle 8. Che cosa faccio prima? Leggo, guardo lo sport in televisione». 
Scrive a mano? 
«Sempre. Nella mia bottega conservo tutti i manoscritti, ordinati e rilegati. Purtroppo li mando così all’editore». 
Lei si reputa un grande scrittore? 
«No, perché quando leggo i grandi mi sembra di essere piccolo piccolo. E non mi rileggo mai, mi manca il coraggio». 
Di chi è amico? 
«Vado in montagna con Erri De Luca, parliamo di boschi e di letteratura. Una volta sfidai la sua sobrietà e lo feci bere. Mentre parlava scivolava sempre di più sulla sedia, cedette lentamente». 
Altre vittorie? 
«Su Berlinguer. Figuriamoci, dopo un po’ era già distrutta». 
Sfidare lei a bere richiede coraggio. 
«Una volta Celentano voleva portarmi in una delle sue trasmissioni e mandò qui in missione Claudia Mori, grande artista. Io ero negli anni matti delle grandi bevute, quel giorno ero con il mio amico Silvio, una barba folta e incrostata di vino. Claudia Mori non voleva bere, ma Silvio insisteva. Se ne andò sconvolta». 
Un’altra donna che ammira? 
«Ornella Vanoni. Dice tutto quello che le passa per la testa. Un giorno la incontrai in un festival, nemmeno mi ricordo dove. Lei si volle fare un selfie con me. Signora, dissi, sono onorato. Bevemmo assieme un paio di bicchieri». 
È innamorato? 
«Frequento una persona con cui andiamo a fare lunghe passeggiate in montagna. È molto bella». 
Che cosa è per lei l’eros oggi? 
«L’eros venerando è più bello del fuoco dei vent’anni. Si diventa vecchi e l’amore assomiglia a una compagnia complice: due passi, un bicchiere, un silenzio».