corriere.it, 6 giugno 2025
Théodore Géricault, «La Zattera della Medusa» e una domanda: perché l’arte oggi non ci sconvolge più?
Parigi, inverno del 1818. In un quartiere periferico e gelido, vicino all’ospedale Beaujon, arriva un ragazzo giovane e bello, abiti dal taglio perfetto, barba curata, polsini candidi. Apre la porta di un grande studio vuoto, freddo e poco accogliente. Fa cenno di sì con la testa e si chiude la porta alle spalle. Nessuno, nella Parigi della Restaurazione, ancora scossa dalla disfatta napoleonica di Waterloo, può immaginare che nei mesi successivi quell’atelier si riempirà di corpi. Corpi senza vita, cadaveri freddi e quasi in decomposizione che il giovane pittore farà arrivare dall’ospedale vicino.
Perché quel ragazzo è un artista, si chiama Théodore Géricault e ha in mente di dipingere uno dei quadri più sconvolgenti della storia dell’arte: «La Zattera della Medusa» sarà completato poco più di un anno dopo e ancora oggi, nel Museo del Louvre, cattura gli sguardi sgomenti di milioni di persone. Géricault non aveva nemmeno 29 anni, ma contava su una preparazione artistica solida: ottime scuole, una famiglia facoltosa, un lungo viaggio in Italia intrapreso anche per dimenticare una donna ma poi sfociato in un altro grande amore, quello per la pittura di Tiziano e Tintoretto, un misto di tecnica coloristica e racconto del mito.
Ma perché un ragazzo di lignaggio nobile, un «privilegiato» in quella Francia attraversata da profonde divisioni, sceglie di chiudersi in un atelier popolato di cadaveri, appunti meticolosi, disegni, ritagli di giornale? Théodore era un artista già abbastanza famoso (e controverso): nel 1814 con il dipinto «Corazziere ferito che abbandona il campo di battaglia» aveva realizzato uno dei simboli della fine del periodo napoleonico. Appassionato di cavalli sin da bambino, delle battaglie sapeva cogliere anche l’umana sofferenza, il senso di dolore sterile. Dipinge e disegna le sconfitte della campagna di Russia, illustra la rassegnata disperazione dei mutilati di guerra. Predilige, insomma, una visione anti-eroica, perfetto controcanto della retorica dominante nel periodo napoleonico.
Ma, soprattutto, Géricault era intimamente convinto che il gusto neoclassico imperante, purista e levigato, non fosse la giusta misura per leggere il mondo che stava vivendo: la restaurazione aveva portato con sé l’inevitabile seguito di vendette, spaccature sociali, ingiustizie. E non da ultimo si era riaccesa la fiamma imperialista. I Borbone, da poco tornati al potere, volevano riprendersi territori come il Senegal: il Trattato di Parigi stabiliva che l’Inghilterra dovesse ritirarsi e che le coste del Paese tornassero alla Francia. Fu così che nacque l’avventura della «Méduse», il nome della fregata che il 15 giugno del 1816 partì dal porto di Rochefort in testa a una spedizione esplorativa. A bordo della nave c’erano quattrocento persone: soldati, avventurieri, antropologi, artisti, donne, bambini. Guidava la fregata Hugues Duroy de Chaumareys, uno che non navigava da vent’anni ma che aveva servito bene la monarchia.
Il resto è storia: la mattina del 2 luglio 1816 la nave si avvicina troppo alla secca di Arguin, il comandante tarda a dare gli ordini e la «Méduse» si arena sul fondale sabbioso con il suo carico disperato. Duroy e gli alti ufficiali si mettono in salvo, abbandonando il resto dell’equipaggio, che riesce a fabbricare una zattera con i resti della fregata. È qui che comincia il viaggio disperato, quello che nei secoli a venire incarnerà perfettamente l’idea di naufragio: non solo marittimo, ma anche etico. Su quella zattera si commetteranno omicidi, atti di cannibalismo, suicidi. E per almeno un anno nulla trapelerà sui giornali francesi, grazie a un raffinato sistema di censura.
Solo quando alcuni superstiti – tra i quali un conoscente di Géricault – cominceranno a raccontare i fatti, allora l’opinione pubblica reagirà. Fu allora che l’artista decise di fare luce: sulla verità storica, su un periodo troppo imbiancato da una retorica estetica non più sufficiente a rispecchiarne la vera natura. Si chiuse nell’atelier di Clichy, approntò decine e decine di bozzetti preparatori, realizzò persino un plastico del naufragio, dipinse i corpi ispirandosi a cadaveri veri, intervistò i sopravvissuti. A mano a mano che il quadro prendeva forma, Géricault capiva che quello non era un semplice dipinto: era un atto di accusa verso la codardia dei corrotti al potere, era la denuncia di un sistema che non poteva funzionare, nonostante le promesse di uguaglianza.
E quando «La Zattera della Medusa» venne esposto per la prima volta la reazione fu eclatante e divisiva: condanne senza appello, consensi interessati, polemiche. Géricault cadde in una profonda depressione, tanto che fu costretto a trasferirsi per due anni a Londra, dove il successo cominciò a inseguirlo come una specie di maledizione. Arrivarono soldi e popolarità, ma nulla poteva salvarlo da quello che aveva fatto a sé stesso: aveva aperto gli occhi e aveva guardato il male. Trasfigurandolo in un’opera d’arte in grado di perforare l’apatia generale: su quella «Zattera» arrancava un Paese intero e, per di più, in tanti ci si riconoscevano.
E allora ci si chiede: se Géricault riuscì a rendere bruciante e attuale un episodio avvenuto due anni prima, com’è possibile che oggi, in un tempo in cui si viene a conoscenza di qualcosa nel momento in cui accade, quindi nel tempo dell’immediatezza delle immagini, l’arte non abbia più questo potere urticante? Dall’inizio della guerra russo-ucraina, ci sono stati centinaia di artisti che hanno dedicato opere al conflitto, ma sapreste nominarne uno che ha davvero scosso le coscienze? Più in generale, che cosa anestetizza l’espressione estetica nell’epoca dell’informazione? La risposta sarebbe complessa, ma forse sta proprio in questa parola: «informazione».
Non vogliamo più fatti, ma informazioni sui fatti, che spesso sono opinabili. Non ci lasciamo più «sconvolgere», al massimo ci lasciamo accarezzare da una innocua indignazione. All’arte che fa sanguinare le coscienze preferiamo la provocazione. E viene in mente un verso del poeta latino Lucrezio, tra i passi più belli del De Rerum Natura : «È dolce, mentre la superficie del vasto mare è agitata/ dai venti, contemplare da terra la gran fatica di altri;/ non perché il soffrire di qualcuno sia un piacere lieto,/ ma perché è dolce capire da che sventure sei esente». Géricault, invece, si lasciò travolgere. Si ammalò, finì in cura da un famoso neurologo, conobbe altre persone malate «di testa» e le ritrasse, tornò alle sue passioni e fu proprio per causa di una di queste che perse la vita: cadde da cavallo, finì in ospedale, le sue condizioni si aggravarono anche a causa di una malattia venerea. Morì a soli 32 anni. Vive ancora nella Zattera.