La Stampa, 6 giugno 2025
"A ottant’anni mi sento libero. Nell’Albania di oggi rivedo i nostri errori del passato"
«Mi è rimasta intatta l’energia per mettermi sempre in gioco. In questo, nel passaggio da ragazzo a vecchio, sono rimasto uguale». Ottant’anni fra cinema e “pensieri belli”, un nuovo film in preparazione, tanti riconoscimenti importanti. L’ultimo è quello che riceverà oggi, al Festival Internazionale del Cinema di Pompei, con Enrico Vanzina direttore artistico e Annarita Borelli presidente: «L’amore per il mio lavoro – dice Gianni Amelio – è lo stesso degli inizi, credo in quello che faccio e ne traggo ancora linfa vitale».
In che cosa, invece, si sente cambiato?
«Se sono cambiato, è in meglio. Non sono mai stato aspramente competitivo, ma, quando si è giovani, è normale essere in ballo e quindi più spinti a scalpitare, a lottare per affermarsi. Oggi non ho più niente da dimostrare e questa condizione mi dona maggiore libertà, non devo subire imposizioni, mi sento in pace. Penso che questo sia uno dei regali più significativi che ricevo ad ogni compleanno».
Qual è stato l’incontro cruciale della sua vita?
«Dal punto di vista umano, quello con Luan, il figlio che ho adottato durante le riprese del mio film Lamerica, quando aveva già 18 anni. Adesso è direttore della fotografia. Adottare è un atto molto più forte rispetto a quello di diventare padre naturalmente, è una scelta personale, che espone a responsabilità maggiori. Abitualmente i figli arrivano come coronamento di un rapporto di coppia, è una cosa diversa dal trovarsi a scegliere una persona con cui si stabilirà un legame fondamentale come quello della paternità e della figliolanza».
Come è andata con Luan?
«Adottarlo è stato complicatissimo, con lui ho adottato in pratica una famiglia intera, che veniva da una situazione di bisogno estremo. Ho dato il mio aiuto a piene mani, la madre di Luan ha vissuto a casa mia, il padre ora non c’è più, lui ha la sua compagna, Monica, sono insieme da 30 anni, le loro tre figlie oggi sono maggiorenni. È una grande famiglia, molto unita. Era quello che volevo. Non una famiglia allargata, nel senso che comprende anche gli amici, ma proprio una vera famiglia numerosa, dove poter essere il capofamiglia che si prende cura di tutti. Nella vita, quello che fai ti viene restituito. Arrivare alla mia età con tutte queste persone che mi vogliono bene e che mi proiettano nel futuro è una cosa bellissima».
Ha girato “Lamerica” nel ’94, per raccontare il grande esodo che si svolse in quegli anni dalle coste albanesi all’Italia. Oggi la situazione è cambiata, c’è un accordo, molto discusso e molto problematico, che prevede il trasferimento coatto di migranti dal nostro Paese all’Albania. Che cosa ne pensa?
«Già allora, nel racconto del film, sottintendevo che l’Albania sarebbe diventata come l’Italia. Gli albanesi vedevano il nostro Paese come un Paradiso, ora basta andare lì qualche giorno per capire che si stanno commettendo gli stessi errori che forse abbiamo commesso noi. Il capitalismo sfrenato, la mancanza di equilibrio sociale per cui i ricchi sono ricchissimi e i poveri poverissimi e emarginati. Nel titolo del film dicevo proprio questo, e cioè che l’Albania sarebbe diventato un Occidente opulento…quello che succede adesso è impressionante».
Il suo ultimo film “Campo di battaglia” è, purtroppo, di grande attualità.
«Parla di prima guerra mondiale, ma oggi la guerra è una realtà tremenda e contemporanea. Il racconto comunica inquietudine, perché, al centro di tutto, ci sono le domande basilari, necessarie, che ci facciamo tutti, e cioè “come si fa a evitare la guerra? Come si fa a istituire la pace? Come si possono evitare gli orrori di Putin, il massacro di civili di Gaza? Come si fa a istituire la pace?” Nessuno ci riesce, nemmeno il Papa».
Sul piano professionale a chi sente di dovere qualcosa?
«A una persona che non viene mai abbastanza ricordata, parlo del grande Paolo Valmarana, capostruttura della Rai degli Anni 80. Ha cambiato completamente la mia vita. È stato il produttore del mio film Colpire al cuore, la mia vera partenza come regista di cinema. Ebbe un coraggio enorme, perché in quella storia si affrontava il tema del terrorismo e dei cattivi maestri. Un soggetto forte, farne un film con la Rai, in quel momento storico, era veramente un’impresa difficile, e io la devo a Valmarana».
Com’è il suo rapporto con la critica cinematografica, le è mai capitato di arrabbiarsi leggendo un giudizio su un suo film?
«Anche io sono stato critico, penso che la critica intelligente sia quella costruttiva, il critico deve fornire spiegazioni per gli errori commessi dal regista. Per me è stato importantissimo Morando Morandini. Tutti gli autori vogliono sentirsi gratificati, ma è chiaro che non succeda sempre così. Però una cosa è essere criticati da una persona intelligente, un’altra dal primo supponente che apre bocca. Parlo di chi, per una sorta di antipatia, continua a fare sempre le stesse osservazioni, senza mai riuscire a farsi capire e a spiegare le proprie ragioni».
Il cinema italiano vive una fase tormentata. Che ne dice?
«Credo che quella di oggi sia una crisi molto più grave rispetto a quelle che il cinema italiano ha vissuto ciclicamente. Stavolta mi sembra sia più dura da superare, noi gente di cinema ce la stiamo mettendo tutta per venirne fuori. Siamo convinti che gli errori del passato non possano essere ripetuti, ma non si può nemmeno restare in uno stallo che sta portando alla fame migliaia di persone. Il cinema non è fatto di quattro divi e tre registi, ma di gente che fa i mestieri del cinema, tutte persone bloccate ormai da più di due anni. Non ci si muove per risolvere il problema e le responsabilità sono soprattutto di natura politica. A questo punto la macchina del cinema deve ripartire, si tratta di un’urgenza assoluta».
Che cosa bisognerebbe fare?
«Da parte di chi lavora nel settore c’è un atteggiamento di grande positività, che la politica dovrebbe cogliere. Non possiamo continuare a vivere un dramma, senza nemmeno capire perché non venga risolto. Siamo allo sbando, non si sa più chi siano gli interlocutori giusti cui rivolgersi».
Di recente Liliana Cavani ha sparato a zero sulle serie, difendendo a spada tratta la superiorità del cinema. Lei che opinione ha?
«Contraria a quella espressa da Liliana, vedo nelle serie un passo avanti per il cinema, un prolungamento del modo di farlo. L’arrivo delle serie, anche se viste su piattaforma e quindi a casa, è un passo necessario che può anche alimentare il gusto degli spettatori che poi vanno nelle sale. Le serie belle portano intelligenza, possono aiutare lo spettatore ad apprezzare meglio i film. L’importante è non fare cose brutte. Quindi viva le serie. Se me ne proponessero una, la farei di corsa». —