La Stampa, 6 giugno 2025
Gli schiavi della pietra
È un suono acuto, a tratti stridente. Un martellare ritmico troppo forte per confondersi nel fragore del temporale. «Possono nascondersi nella campagna. Possono circondare il capannone di siepi alte e fitte. Possono stare sempre tutti in silenzio. Ma a nessuno che passa di qui potrà mai sfuggire il rumore dello scalpello. Tin, tin, tin. È inconfondibile. Quando lo senti, vuol dire che là dietro stanno lavorando. Anche se sembra un posto deserto».
Via Sant’Anna non è una strada di paese qualsiasi. È un reticolo di sterrato ramificato che sulla mappa sembra una costellazione. A Bagnolo, con Barge il paese della lavorazione delle pietre di Luserna, lo chiamano il Minotauro. È un labirinto di capannoni tra i campi di granturco. All’inizio sembra una stradina di villette. Poi un sentiero tra i prati che prosegue verso Cavour. Ma dopo il primo chilometro, in questa terra di mezzo tra Cuneo e Torino, piana del mais e delle mele, compare la cittadella delle fabbriche della pietra.
La pietra elegante e grigia delle lose. La pietra sfogliata, difficile da modellare se non con lo scalpello. Spuntano i primi capannoni. Grigi come il cielo. Sembrano abbandonati. Vuoti. Spogli anche nei cortili enormi.
Piove. Eppure qualcosa si muove. Ogni tanto arriva un camion carico di massi, sceso dalle cave di Montoso. Entra carico ed esce scarico. Rifà il giro. Costeggiando i cespugli che coprono la visuale, all’improvviso si sente quel suono. Tin, tin, tin. «Eccoli. Lavorano anche se piove», spiega un tecnico. Uno degli uomini che controllano se queste imprese che hanno fatto ricca la provincia siano regolari o meno.
La scorsa settimana l’ispettorato del lavoro di Cuneo, con i carabinieri del Nil e di Saluzzo hanno dichiarato otto di queste ditte del tutto «irregolari». Due sono state chiuse per «gravi violazioni in materia di sicurezza». In un capannone gli scalpellini erano controllati a distanza con le telecamere abusive.
«Oggi sono pochi, perché i controlli hanno spaventato tutti. Ma di solito non sono molti di più. Questo è un lavoro artigianale, di fino. Ne bastano pochi. Ogni scalpellino ha il suo ombrellone da mercato aperto. Li sistemano per il sole. Mica per la pioggia. Perché dall’alba al tramonto, a spaccare le pietre con 40 gradi, si rischia di collassare. Sono tutti cinesi. I manovali e i proprietari. Molti non parlano l’italiano».
L’esercito degli scalpellini è sparuto e silenzioso. Sparpagliato nei dintorni di un rettilineo di quattro chilometri. Nella strada che collega Barge a Bagnolo le ditte compaiono una dopo l’altra. Quelle che vendono i prodotti finiti – lose e cubetti di porfido – sono in bella vista, ai lati della carreggiata. Quelle dove si taglia la pietra grezza sono nascoste. Nella campagna e sulle colline. A Barge, in via Monte Bracco, il tintinnio si sente dopo il primo tornante. Un uomo con il cappello viola abbraccia una grande lastra grigia. Con una mano la tiene ferma. Con l’altra batte senza fermarsi, lo scalpello incollato alla mano. Piove ancora. Si sente osservato. Sorride. Continua a battere.
Anche lui non parla italiano. Tutti gli scalpellini di Barge e Bagnolo sono cinesi. Qui si è insediata, decenni fa, quella che oggi è una delle più grandi comunità cinesi d’Italia. Nell’istituto alberghiero di Barge, il 25 percento degli studenti è di origini cinesi. I loro padri e i loro nonni sono originari della provincia montana dello Zhejiang. Racconta un imprenditore: «Solo i cinesi sono bravi a scolpire la pietra perché nello Zhejiang è una tradizione antica. Gli scalpellini che vengono da lì hanno una manualità incredibile. È una pietra difficile da levigare, perché si sfoglia. Solo loro sanno assottigliarla in maniera omogenea. Ma è un lavoro logorante. E non lo vuole fare più nessuno».
Non ci sono orari. Una giornata di lavoro può diventare infinita. Ma nessuno lo dice. Sono artigiani sfruttati che non parlano. Non si sono mai ribellati. La forma di emancipazione delle terze e ultime generazioni consiste nel non seguire la strada dei padri. Xu ha vent’anni, vive a Barge e lavora a Torino: «Mi ha cresciuto mio zio, scalpellino. Io farò il parrucchiere. Non l’ho seguito perché è un lavoro troppo faticoso. Come funziona? Dipende dal bisogno. Un giorno si va da una parte, un altro giorno da un’altra. Dipende da quali ditte hanno bisogno. Si lavora tutto il giorno e fino a quando c’è la luce, perché si sta all’aperto. Non c’è un punto di concentramento la mattina. Ognuno sa già dove andare. E ci va in bicicletta».
È difficile capire, in questo dedalo tra i campi dove i camion vanno e vengono, dove stia il confine tra il lavoro e lo sfruttamento. Tra la libertà e il caporalato. Non è facile nemmeno comprendere quali ditte siano in regola e quali no. Chi controlla, spiega: «È complicato perché le ditte non sono tutte registrate. O se lo sono, c’è qualcosa di anomalo, perché figurano senza dipendenti». Sulla carta le aziende dove si lavora la pietra attive tra Barge e Bagnolo sono circa 30. Ma nella realtà se ne contano di più. «Una volta siamo entrati e abbiamo visto dei manovali uscire in fretta e furia da dietro». Chi erano? Dove andavano? L’attività degli ispettori, che sono venuti qui con i carabinieri, si chiama “Alt Caporalato 2”. Ma sono davvero caporali? Fino a qualche tempo fa si. A Cuneo tutti ricordano il processo a carico di “Franco”. Un punto di riferimento per gli scalpellini cinesi. Un caporale secondo il nostro codice penale. «Ma se avevi un problema te lo risolveva». In aula lo hanno difeso tutti.
Oggi, se c’è ancora un esercito di scalpellini, è più scarno e fluido di prima. Battono. Si spaccano la schiena. Sono gli ultimi. Quando torneranno in Cina, a morire, qui non resterà più nessun artigiano. Battono e resistono sotto al temporale. Sono gli irriducibili.