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 2025  giugno 05 Giovedì calendario

I nipoti di Monica Vitti: «A casa di zia Ninni giocavamo rifacendo con lei le scene dei film. Suo papà non la voleva attrice e si rifiutava di entrare al cinema»

Monica Vitti non ha avuto figli, ma aveva un legame profondo con i nipoti. Abbiamo incontrato i figli di Giorgio (uno dei suoi due fratelli, tre anni più grande), alla vigilia dell’apertura a New York della retrospettiva di Cinecittà e Film at Lincoln Center «Monica Vitti. La Modernista», la prima dedicata all’attrice in Nord America. Giorgio Ceciarelli, 60 anni, vive da 35 in New Jersey, dove ha dei ristoranti. Sua sorella Patrizia, 61 anni, è venuta a trovarlo da Pozzallo, in Sicilia. Vitti non venne mai in America: aveva paura di volare. «Non ha mai preso voli lontani, neanche per andare a trovare lo zio Franco, il fratello più grande, che viveva in Messico», racconta Patrizia. Ma con questa rassegna di 14 film, alcuni appena restaurati da Cinecittà, Vitti diventa «ambasciatrice senza uguali del cinema italiano in America», spiega la ceo di Cinecittà Manuela Cacciamani. «Vitti rappresenta la doppia anima del nostro cinema: quella d’autore, come musa di un regista poeta e impervio come Michelangelo Antonioni, il padre della modernità cinematografica. E allo stesso tempo la stella della commedia all’italiana, il nostro genere più popolare. In lei queste due anime distanti si incarnano in uno stesso corpo, talento, voce e bellezza». «Sono così contento che i miei figli potranno vederli – ci dice Giorgio —. È la bellezza di questo tipo di iniziativa di preservazione dell’arte, veramente la riapre, per le generazioni che vengono. Non vedo l’ora di sentire che cosa mi dicono i miei figli». 
Com’era con voi Monica Vitti? 
Patrizia: «Per noi era “zia”, non era Monica Vitti anche se sapevamo il suo lavoro. Mio padre, i miei nonni la chiamavano Ninni, non era né Monica né Maria Luisa. Siamo cresciuti con Ninni. L’abbiamo vissuta di più degli altri nostri cugini, perché vivevamo a Roma. La domenica stavamo sempre a pranzo insieme, veniva a casa di nostro padre Giorgio, che era l’amore della sua vita. Quand’ero più piccola, dieci o dodici anni, volevo fare chiaramente l’attrice come lei e sono andata nel set di tantissimi suoi film, mi ricordo bene L’anatra all’arancia, con Ugo Tognazzi per la regia di Luciano Salce. Si divertivano, era un clima allegro, spensierato. Mi ricordo una volta che Tognazzi venne a casa a cucinare. Poi è capitato un paio di volte che ho dormito a casa sua perché Roberto (Russo, il marito e compagno di Vitti per gli ultimi 49 anni, ndr) aveva da fare, perciò rimanevo a casa sua a dormire: allora giocavamo un sacco, leggevamo i copioni, facevamo le scene. Quando chiudo gli occhi ho ancora il suo profumo nel naso, un profumo di cipria, che poi era quello di mia nonna. Una volta sono stata con lei in Accademia, quando insegnava, e mi ricordo il rispetto degli studenti per lei. Non credo che per lei fosse un lavoro: era la sua vita, la sua passione. Non era un recitare, era nel suo Dna». 
È vero che Angelo, suo padre, non era tanto d’accordo che facesse l’attrice? 
Giorgio: «Soprattutto quando noi eravamo piccoli e uscivano i nuovi film di zia, il nonno aspettava fuori. E la nonna ci portava al cinema, super-orgogliosa. Silenziosamente entravamo al cinema Adriano, e il nonno fuori in macchina girava, chi lo sa che faceva, ma lui non veniva perché a quei tempi, all’inizio degli anni Settanta lui aveva quel pudore... non era molto d’accordo che la figlia facesse l’attrice. Però, poi, penso che con gli anni anche lui avesse un orgoglio silenzioso. Andava veramente molto fiero di lei. Tutti a Roma gli dicevano: “Commendatore, sua figlia...”. Era il papà di Monica Vitti, anche se non voleva dirlo a nessuno». 
Perché comunque fare l’attrice a quei tempi era un po’ disdicevole? 
«Esatto, e poi un pochino lo scandalo con Antonioni, la storia con Antonioni, il nonno ne risentiva».

Patrizia: «Io ho un ricordo bellissimo di Michelangelo. Abitava al piano di sopra. Quando arrivavo a casa di zia, io correvo subito, prendevo le scale e andavo su da Michelangelo quand’ero piccolina. E lui mi metteva sempre sulle sue gambe, mi diceva “Patriziè, mettiti qua” e mi dava 100 o 50 lire, mi compravo il gelato. Tornavo con queste 100 lire che per me erano un tesoro». 
Giorgio: «Lo vedevamo come uno zio, come una persona di famiglia».
Com’era la zia negli ultimi vent’anni, quelli della malattia degenerativa, passati senza apparire in pubblico? 
Giorgio: «I nostri figli l’hanno conosciuta. Io vivevo già in America, ma non potevo toccare il suolo italiano senza andare a salutare zia. Che non stava bene, che già stava più a casa, non poteva uscire. Andavamo con i miei figli e mia moglie a trovarla e si passava una giornata lì con lei. E lei amava i bambini, più da grande che quando noi eravamo piccoli. “Michele, vieni, ti faccio vedere...” diceva a uno dei miei figli. Lo portava in balcone, per fargli vedere Roma. Era sempre con loro. Da persona sempre nell’occhio pubblico, voleva forse che il suo pubblico tenesse una visione di lei, un’idea... si è rassegnata a restare in casa e avere una vita molto privata proprio per lasciare questo ricordo a tutti. Però aveva Roberto, suo marito, che le è sempre stato vicino e l’ha amata moltissimo e la cui vita era devota a lei, veramente». 
Com’era il rapporto con vostro padre Giorgio? 
Patrizia: «Lo zio Franco era il grande, c’era sempre un po’ più di distanza tra di loro. Lei e Giorgio da piccolini avevano fatto teatro insieme. Diceva sempre: se non fosse stato per Giorgio, non avrei mai fatto l’attrice. Durante la guerra si sono trasferiti in Sicilia, perché mio nonno lavorava per l’Istituto del Commercio Estero, lui era quello che preparava i treni per i nostri soldati al fronte, c’erano i bombardamenti a Roma e ha preferito spostare là la famiglia. Durante i bombardamenti andavano giù nei rifugi, nelle cantine, e mio padre e la zia per far ridere i bambini tristi e pensierosi, si inventarono il teatrino. Poi mio padre quando era ragazzino andava a fare la fila per il pane per tutti, in modo da guadagnare qualche soldino, così poi aiutava la zia. La prima volta che andò a fare una cosa in teatro, i nonni dormivano, lui l’ha fatta scappare dalla finestra e le ha fatto trovare giù una carrozza».
Perché da piccola la chiamavano «Sette sottane»? 
Patrizia: «Perché la nonna la copriva tutta, aveva paura che prendesse freddo». 
A chi somigliava nel carattere? 
Giorgio: «Era un mix. Il nonno era determinato, forte e la zia era molto disciplinata nel suo lavoro, non la fermava nessuno. E aveva la dolcezza della nonna».