la Repubblica, 5 giugno 2025
Meloni, Macron e Merz nuovi equilibri a destra
Fino a qualche tempo fa la Francia godeva di un ruolo privilegiato nella rete delle alleanze europee: almeno per quanto riguardava i paesi della fascia meridionale, dall’Italia alla Spagna. Era una funzione che si potrebbe definire, in modo semplicistico, da “Lord protettore”. All’interno di questo schema prese forma di recente il “patto del Quirinale”, volto a consolidare in modo stabile la relazione tra Roma e Parigi. Dal punto di vista francese, tale funzione era considerata quasi simmetrica al ruolo egemone della Germania rispetto alle capitali del nord-est, a cominciare dalla Polonia (e a esclusione dell’Ungheria che con Orbán ha scelto un’altra strada). In realtà l’Italia, negli anni più significativi del dopoguerra, coltivava anch’essa un’intesa speciale con la Germania, allora divisa in due. Lo abbiamo visto con due grandi cancellieri, Helmut Schmidt e poi Helmut Kohl, con i quali l’Italia ha costruito un tratto importante del suo sentiero europeo. Anche nel campo della difesa, come accadde negli anni Ottanta con gli euromissili dispiegati in risposta agli Ss20 sovietici.
Era la visione euroatlantica applicata alle circostanze di quella stagione. Oggi lo scenario è diverso, ma non troppo. La Germania di Merz si è posta come leader di un’Europa che intende difendere l’Ucraina e favorire il riarmo dell’Unione, nella coscienza che il disimpegno americano, sia pure parziale, sembra irreversibile. Il primo alleato di Merz in questo percorso, diciamo così, neo-europeista è la Francia di Macron. Con una differenza: il cancelliere è appena all’inizio del suo mandato e non ha voglia di perdere tempo; il presidente francese si avvia al termine del suo secondo mandato all’Eliseo e sa di non potersi ricandidare. Questa asimmetria offre al tedesco un certo vantaggio rispetto al francese, se il problema è la guida dell’Unione. In sintesi, Merz oggi ha le maggiori probabilità di essere riconosciuto come il leader dell’Europa che deve ripensare alla propria identità. Se questo è lo sfondo, Berlino e Parigi hanno un problema comune. È l’avanzata dell’estrema destra in entrambi i paesi, a cui si sommano i successi delle forze anti-establishment in vari altri paesi, da ultimo a Varsavia. Arriviamo dunque all’Italia guidata da Giorgia Meloni, la più importante esponente di una famiglia politica che ha poco da spartire con la tradizione democristiana, socialista o liberal-democratica. Si è compreso che isolare l’Italia non è utile a nessuno e contribuisce a rendere più fragile l’impianto dell’Unione. Peraltro anche l’Italia non nulla da guadagnare dall’isolamento. Non a caso la premier si è sempre sforzata di evitarlo, attraverso il rapporto buono ma non esclusivo con la Casa Bianca e la ricerca di una nuova intesa con i partner continentali (senza dimenticare l’inglese Starmer). Questo non significa che l’Italia meloniana voglia accodarsi ai “volenterosi”. Vuol dire però che è in corso un lento riavvicinamento ai due maggiori paesi, Francia e Germania. Questi si attendono che l’Italia non incoraggi l’estrema destra continentale al punto da rovesciare gli attuali equilibri. E l’Italia del centrodestra si aspetta di essere coinvolta nelle strategie dell’Unione, avendo ottenuto la giusta dose di rispetto.
Questo è il senso del colloquio romano di Macron, benché forse il vero interlocutore a cui si rivolge oggi Giorgia Meloni è a Berlino prima ancora che a Parigi.