La Stampa, 5 giugno 2025
Intervista a Enrico Brignano
Il sorriso sul volto, nell’anima un buco profondissimo. Enrico Brignano non nasconde né l’uno né l’altro: ha portato entrambi in scena, ieri all’Arena del Mare di Termoli, con Bello di mamma! Quando il sipario si è aperto, ha fatto divertire la platea, come sempre, ma prima di iniziare ha dedicato in cuor suo lo spettacolo a mamma, che a marzo è se ne è andata. Aveva 89 anni, ultimamente stava male ma lui, come qualsiasi figlio, ha sperato fino all’ultimo di avere più tempo da trascorrere insieme. Questo spettacolo è (fin dal titolo) il suo personale omaggio a lei.
Quando si perde qualcuno, la parte più difficile arriva a funerale finito, quando si resta soli. Bello di mamma! è anche un modo per tenere accese le luci e non essere travolti dalla solitudine?
«Ho già perso mio padre, anni fa, quindi so perfettamente che si tratta di un dolore che non andrà mai via. Portarlo sul palco non mi alleggerisce della sofferenza, ma la onora».
Il giorno della morte lei aveva la presentazione di Lol e quattro spettacoli in Sicilia. Fece tutto. Non poteva o non voleva fermarsi?
«Sono partito con il cuore in gola, sperando di ritrovarla viva al mio ritorno: non stava già bene, i valori erano ai minimi. Se avessi annullato tutto avrei però messo in difficoltà le persone che ci lavoravano. Ho mantenuto fede agli impegni presi per rispetto degli altri ma anche degli insegnamenti di mamma: lei avrebbe fatto altrettanto. Quando morirono i nonni, si concesse solo mezza giornata di lutto, poi alzò la serranda della sua frutteria».
Che rapporto avevate?
«All’antica, di quelli analogici: tanto affetto, poche smancerie. Mamma era una donna tosta, una garibaldina nata nel 1936 che ha assistito agli orrori della Guerra Mondiale. Era diversissima da mio padre: si sono incontrati e innamorati a Roma. Entrambi erano migranti: papà veniva dalla Tunisia, lei da un paesino della Sicilia dove c’era la Cassa del Mezzogiorno. La loro educazione era improntata al “diamoci da fare": ognuno doveva fare il proprio, senza sconti. Ci volevano bene, ma il battipanni era sempre pronto a squillare. Se sono diventato l’uomo che sono lo devo a questa educazione».
Crede che esista qualcosa dopo la morte?
«Sono cattolico quindi sì, penso che sia importante vivere bene per ottenere una scontistica, un buono pasto, qualsiasi cosa che ci apra le porte della vita eterna. Già se dall’altra parte non esistesse Equitalia, sarebbe una grande gioia».
È cresciuto in una famiglia poco abbiente, ora è un uomo agiato. In tutta onestà, davvero i soldi non fanno la felicità?
«Danno una bella mano, ma quando li hai, non riesci più a comprare il tempo che ti servirebbe. La vera ricchezza è fare quello che desideriamo».
Da piccolo puntava al posto fisso, da carrozziere: non proprio una grande ambizione. Cosa la frenava dal sognare in grande?
«Mamma e papà mi hanno insegnato a non essere tradito dalla vita: dovevo mettere nel cassetto solo i sogni che poteva contenere. Quindi piccoli. Il posto fisso era fondamentale. Io volevo studiare poco e lavorare subito così mi sono iscritto all’istituto tecnico e lì è avvenuto il miracolo. Ho capito che la mia strada era un’altra».
Come la presero i suoi?
«Non malissimo. Ero giovane quindi pensarono: ha ancora tempo per cambiare idea e tornare indietro. Poi vedevano che mi impegnavo: studiavo poco, ma quel poco lo facevo bene, aiutavo in casa, e... il carattere era esuberante. Ero sempre il capo della comitiva, scarrozzavo tutti in macchina. Così, nel 1984, furono loro a portarmi alla scuola di Proietti».
Proietti però la prese come macchinista. Un colpo basso o una grande lezione di vita?
«Ogni lezione di vita è un colpo basso. Sulle prime ci rimasi male, ma la mia insegnante di recitazione mi spinse ad accettare: “Intanto è un modo per iniziare e vedere Proietti in azione. E poi ti pare che lui non ti coinvolgerà?”. Così è successo: feci sia il macchinista che l’attore. Ora uso lo stesso metodo con i miei allievi: li tiro dentro, in qualche modo, e poi si cresce insieme».
Nella sua carriera c’è tanta commedia e poco dramma. Perché?
«A volte c’è la difficoltà (o l’incapacità) di vedermi sotto un’altra luce. Eppure io faccio l’attore, non il comico: la mia vocazione è cambiare pelle. Comunque mai dire mai: di solito prima di morire, a Roma qualcosa succede».
Non parla mai di politica, perché?
«La politica non nobilita il discorso. Non porta vantaggi a chi, come me, vuol fare della comicità un mestiere nobile. Se ne parlassi potrei solo criticarla, ma a quel punto apri un partito, come è successo».
A Belve Lunetta Savino ha detto che bacia malissimo. Commenti?
«Vero ma poi sono migliorato, quando ho cambiato partner sul set».
In Bello di mamma! riflette su quello che siamo diventati e su ciò che abbiamo perso. Qual è il bilancio?
«Ce lo dice la cronaca: non ci stiamo certo evolvendo. Ci sono Paesi – e mica piccoli, ma di milioni di abitanti – dove la donna è un oggetto da nascondere, da coprire tutta di nero, che non può votare né essere libera. Negli altri invece è oggetto di desiderio. Poi c’è la guerra che è un’involuzione enorme: quando capiremo che le armi non portano alla pace? Armarsi per difendersi è una strategia miope: se hai un’arma, prima o poi la usi».
Come se ne esce?
«La Storia non ci dà buone notizie: non se ne esce mai. Da padre sono terrorizzato. Io e mia moglie Flora Canto cerchiamo di filtrare il più possibile il mondo e le notizie, i nostri bambini sono piccoli e per ora vivono ancora in un mondo di cartoon, ma gli basta incrociare mezzo secondo di Tg per fare brutti sogni».