Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  giugno 05 Giovedì calendario

Ghibli la rivoluzione gentile

Nel 1985 non esisteva Internet. I telefoni non avevano il filo, la musica si ascoltava su cassette, la televisione finiva a mezzanotte. Si vendevano floppy disk, sulla confezione da dieci c’era scritto “memoria”, ma bastava una caduta per perderla tutta. Pochi kilobyte, fragili come foglie secche. A quel tempo la tecnologia prometteva immortalità e intanto cancellava ogni cosa. Quell’anno, nello stesso Giappone che già costruiva robot e sognava chip, nacque qualcosa di più fragile e potente, che imboccava la strada opposta: quella della lentezza, dell’imperfezione. Due animatori, Hayao Miyazaki e Isao Takahata, decisero che la memoria non andava salvata su un supporto magnetico ma disegnata, linea dopo linea, nuvola dopo nuvola. Così, nel giugno di quarant’anni fa, nasceva a Tokyo lo Studio Ghibli.
Il nome evoca poesia e delicatezza, ma la factory nacque come gesto di ribellione contro le condizioni lavorative e salariali delle major: la Toei, la Nippon, la A Production. Prese vita dai movimenti di sinistra e dalle lotte sindacali, dal marxismo e dal socialismo, dalla critica al capitalismo. Nel mainstream Miyazaki e Takahata avevano modellato l’immaginario di una generazione, lavorando su personaggi enormi come Lupin III, Heidi, Anna dai capelli rossi. Ma sentivano che si poteva, si doveva fare molto di più. Si staccarono e trovarono un ufficetto a Musashino, quartiere di Kichij?ji, periferia di Tokyo. Iniziarono a dare vita a nuove animazioni, tutte disegnate a mano. Non inseguivano l’innovazione ma puntavano dritti all’anima dello spettatore. Una forma di resistenza, non epica ma gentile.
Miyazaki è un war baby, nasce undici mesi prima dell’attacco di Pearl Harbor. Le plance dei caccia Zero che si schiantano sulla flotta americana sono prodotte dall’azienda del padre e dello zio, ingegneri. Quello resta il suo imprinting: un’insopprimibile avversione per la guerra unita a un amore fanciullesco per ogni tipo di macchina volante. La passione per il volo torna in Porco rosso, Si alza il vento, Il castello errante di Howl. La stessa denominazione scelta per lo studio era il soprannome del Caproni Ca.309, l’aereo usato dalla Regia Aeronautica Italiana negli Anni 30 per le operazioni coloniali in Nordafrica.
I primi film escono tra l’86 e l’88: Laputa – Castello nel cielo e Il mio vicino Totoro di Miyazaki, Una tomba per le lucciole di Takahata. Il successo commerciale arriva con Kiki – Consegne a domicilio. I primi premi internazionali – primi in assoluto per un film d’animazione giapponese – sono dietro l’angolo. Miyazaki vince un Orso d’Oro, il Leone d’Oro alla carriera, il Golden Globe e due Oscar (più un terzo onorario). Le due statuette sceglierà di non andarle a ritirare, un po’ per ritrosia, un po’ per scelta politica. Nel 2003 per La città incantata disertò la cerimonia perché, disse, «non volevo fare visita a un paese che stava bombardando l’Iraq».
Se lo Studio Ghibli non ha inventato l’animazione, di certo l’ha portata alla sua forma più pura. L’ha sublimata in poemi visivi che non hanno bisogno di spiegarsi per essere compresi. Un mondo in cui l’unica vera divinità è la natura, in cui non esistono il bianco e il nero, e tutti hanno ragione e tutti hanno torto, perché profondamente umani. Anche gli spiriti. Anche le streghe. Anche i robot che curano i fiori.
In quei film non ci sono nemici, i conflitti sono tutti interiori. Non si fugge da qualcosa, ma verso qualcosa. Sono opere sospese in un tempo che non si misura in secondi ma in respiri, silenzi, gesti. Storie che sembrano infinite ma che sanno fermarsi nel momento giusto, come se avessero compiuto il loro destino. Il segreto della loro grandezza risiede non nel voler insegnare, ma nel saper porre domande. Che cos’è la libertà? Dove finisce l’infanzia? Cosa vuol dire essere vivi?
Oggi che Ghibli è un punto di riferimento dell’animazione internazionale la sede è rimasta la stessa, quella che nel ’92 venne trasferita a Koganei, altro sobborgo di Tokyo. Le tentazioni della grandeur non hanno attecchito. Il quartier generale della Disney a Burbank vanta una superficie di oltre 200mila metri quadrati, quello della Ghibli supera di poco i mille. È un’anonima palazzina in vetro e cemento: il seminterrato ospita il reparto fotografia, il piano terra l’inchiostrazione e la colorazione, il primo piano il disegno e la produzione, il secondo la sezione artistica. Ci sta tutto. Entrando ci si imbatte in animatori con la matita in mano, curvi su modeste scrivanie troppo affollate di fogli. Perché l’industria corre, ma in questi quarant’anni Ghibli è rimasta ferma a guardarla. In un’epoca in cui tutto si fa contenuto, ha scelto di restare racconto.
Oggi i floppy disk non esistono più. Quella memoria si è persa, come le password di un tempo lontano. I fotogrammi di Miyazaki e Takahata invece rimangono. La domanda delle domande è: cosa resta quando tutto è stato detto e fatto? Ghibli una risposta l’ha trovata: resta la bellezza.