la Repubblica, 4 giugno 2025
“Macchinine, passione che batte i videogame i ragazzi ne vanno matti”
Cosa ci fa uno dei migliori registi italiani, Marco Ponti, con in pugno la manopola dell’autopista? Perché a 57 anni si è rimesso a giocare con le automobiline elettriche Polistil? È una regressione? Una nostalgia da inconsolabile boomer? Nulla di tutto questo. Lui e i suoi amici hanno ripescato in cantina i pezzi delle vecchie piste di quand’erano bambini, e hanno deciso di farle conoscere ai loro figli nativi digitali: perché è divertente, perché è bello sgommare e scodare con i bolidi in miniatura, mentre il contagiri scatta e qualcuno esce alla curva parabolica. Né Prost, né Proust. Al limite, più il primo del secondo.
Marco Ponti, com’è cominciata?
«Stavo facendo un trasloco, aiutato da un gruppetto di amici. A un certo punto, salta fuori la scatola dell’autopista di quand’ero piccolo. “Ce l’ho anch’io!”, hanno detto quasi tutti, e allora abbiamo deciso di mettere insieme i pezzi per vedere se le macchinine funzionavano ancora».
E funzionavano?
«Mica tanto. Una nostra amica chimica ci ha insegnato come pulire i binari con una specie di solvente. Uno di noi, professore universitario di fisica, con l’aiuto di un tecnico di laboratorio ormai in pensione si è messo a riparare i motorini e a rigenerare le dinamo.
Insomma, dopo un po’ le autopiste viaggiavano di nuovo a meraviglia».
E che ci avete fatto?
«Chiarisco subito che questa non è una passione per i giocattoli vintage, né una nostalgia del bel tempo andato. Volevamo solo mostrare ai ragazzini cosa fosse questo gioco, e coinvolgerli in una cosa bella da fare insieme. Una cosa che riguarda la manualità, non l’elettronica di uno schermo».
Come hanno reagito i più piccoli?
«Ci hanno detto che l’autopista è il gioco più bello del mondo. Ci siamo accorti di quanto la loro manualità stia diventando precaria: per loro, il pulsante che regola la velocità è tutto schiacciato, o niente schiacciato: nessuna via di mezzo, mentalità binaria. Allora, abbiamo provato a spiegare che col pulsante serve delicatezza, e che guidando piano all’inizio si impara ad andare veloci dopo. Facciamo gare, mica è tutta teoria».
È vero che avete organizzato dei Gran Premi?
«Abitiamo dalle parti di Sangano, in Valsusa, e una volta all’anno montiamo le autopiste con i tracciati dei circuiti veri nella sala polivalente comunale “Agorà”. Ci sono eliminatorie e finali, e naturalmente i premi. Lo abbiamo fatto anche al Museo dell’automobile di Torino, ed è venuta un sacco di gente. Alla fine, siccome tutto questo accade ormai da un paio d’anni, credo di aver capito almeno tre cose importanti».
La prima?
«Le autopiste, regalo di Natale per eccellenza dei nostri tempi, le abbiamo salvate dalla discarica, dunque qui parliamo di riciclo e riuso in un tempo che butta via quasi tutto ciò che non serve. Non siamo collezionisti, ma appassionati di quello che ci diverte. Le automobiline si usano, si consumano, si spaccano e poi siaggiustano. Al classico “non toccare che si rompe”, abbiamo sostituito il “tocca, e se si rompe si rimette a posto”».
Dunque, non è ritorno all’infanzia?
«Ecco la seconda cosa che ho capito: lo facciamo per i bambini, non per noi. Lo facciamo perché questo è un gioco in presenza, fisica e non virtuale, e lo si fa insieme. Ogni pista ha quattro corsie e altrettanti giocatori, e almeno altri tre aiutano e rimettono sui binari le vetture finite fuori strada. Si collabora».
Forse la terza cosa ha a che fare con le relazioni umane.
«Sì, e ne abbiamo messe in circolo parecchie. Intanto, tra noi adulti che abbiamo recuperato i vecchi pezzi del gioco, o li abbiamo cercati su Internet dove però costano troppo. Uno si è messo a trafficare con la stampante 3D: le repliche sono perfette. Quando organizziamo gli eventi, si tratta di spostare almeno venti tavoli e quindici scatoloni, oltre alla linea elettrica. Insomma, serve unfurgone. E bisogna occuparsi della sicurezza e chiedere i permessi ai comuni. Un lavoro di gruppo».
Poi si comincia a giocare: ma voi grandi cedete le manopole ai ragazzini?
«Certo che sì! Però, lo ammetto, ci divertiamo ancora come matti.
Quando ho tirato fuori dalla scatola la macchinina che usavo da bambino nelle sfide con mio papà e mio fratello, mi sono commosso perché ho rivisto il muso dell’auto mangiucchiato dal mio cane di allora. Mi sono ricordato che a Natale, o per il compleanno, arrivavano altri pezzi, o magari una macchinina nuova. Le cose si dovevano aspettare e costruire».
Di un bel gioco bisogna prendersi cura.
«Questo è un punto fondamentale: mi piace vedere i bambini alle prese con i pezzetti di ricambio, con i trasformatori o con le spazzoline di rame dove passa la corrente. Per me, la vera civiltà digitale è quella che usa le dita non solo sui tasti».