La Stampa, 4 giugno 2025
Intervista a Gianmarco Tamberi
La cucina di casa Tamberi affaccia sul campo da basket a tre appena posato in giardino. Il campione del mondo di salto in alto lo guarda mentre si prepara una frettolosa e abbondante pasta in bianco e ride. Sta per arrivare un materasso, uno di quelli usati in pedana: «Già immagino la bimba che fa la clap. Una minuscola e fantastica clap con le sue manine».
La bimba deve ancora nascere, ma è il motivo per cui lui ha deciso di continuare a gareggiare. Non lo avrebbe mai detto: in teoria, lei era la ragione buona per smettere e dedicarsi ad altro. Il motivo per liberarsi dal rigore, ma davanti a quelle finestre gigantesche e al panorama che gli porta le Marche in casa, Tamberi ha scoperto di voler mischiare l’educazione siberiana al sentimento.
Diventare padre cambia la vita, inizia anche una seconda carriera?
«Sicuramente sì. Non sono ancora papà ed è scattato un altro modo di essere. Prima lo sport è sempre stato al centro, fisso, adesso lì c’è Chiara e l’arrivo della piccolina. Per tanto tempo mia moglie è stata al mio fianco, oggi sono io al suo. L’approccio si adatterà poi alle esigenze, ma solo per periodi precisi. Ormai il punto di gravità si è spostato».
Ha deciso di continuare a saltare prima o dopo aver saputo della bimba?
«Lei mi ha illuminato. Ho passato l’intera carriera spinto dalla convinzione di poter dare un esempio. Ho dimostrato come ci si può rialzare dalla difficoltà e poi che faccio? Nasce mia figlia e mollo? Glielo racconto senza farle vedere nulla? Non c’è ancora e già mi ha dato un’energia enorme: mi rimetto in gioco davanti a lei».
Per le Olimpiadi di Los Angeles avrà tre anni, piccola per tifare.
«Saprà di averne avuto parte. Le diremo: sei arrivata e mi hai dato questa forza. Pensate che orrore il contrario: “Sai, quando tu stavi per nascere ho smesso”. Prima di lei ho attraversato un tormento: un attimo era “basta, lascio, non ne posso più, voglio respirare”. L’istante dopo sentivo che ne mancava un pezzo. Sono partito per le vacanze a metà settembre e stavo male: le gare dopo i Giochi, il successo in Diamond League hanno tamponato il dolore e appena ho staccato è arrivata la botta: vuoto, ansia. Finito il fuoco. L’infortunio al tendine a un passo da Rio 2016 ha scatenato il riscatto. Parigi è stata un trauma senza reazioni, sentivo di volere una pacca sulla spalla. Di dovermela. Ho guardato indietro per concedermi una coccola: “Sei stato bravo”».
Ha funzionato?
«Mi ha calmato e non mi ha dato risposte. Ero il primo al mondo, lo sono stato per due anni, ho vinto tutto: potevo lasciare al top. Lì ho comunque iniziato il percorso per riportare il fisico a un equilibrio, ho fatto una terapia con le cellule mesenchimali, per il recupero del ginocchio. Mi era evidente un unico fatto: se insisto, non riparto da dolore e infiltrazioni. L’inconscio, il destino, inconsapevolmente mi preparavo al futuro».
Ha detto almeno una decina di volte: quando sarò padre smetterò.
«Vero. Infatti, è un’altra carriera. Se un allenamento andrà male, non tornerò a casa con il muso devastandomi. Sarà mia figlia il centro delle attenzioni. Lo sport non è al primo posto».
A che numero di classifica sta oggi?
«Non può essere al quinto, però non è il faro. A livello di ore di terapie ne faccio più di prima, al campo passo un sacco di tempo. L’impegno è gigante, l’approccio diverso».
Tra due giorni però torna in pedana, al Golden Gala di Roma.
«L’anno scorso, mentre ero travolto dai dubbi questa gara è riuscita a riempirmi di amore: era agosto, l’Olimpico quasi vuoto, ma la curva, la curva Tamberi, la stessa davanti a cui ho vinto l’Europeo e scherzato con le molle, era stracolma. Mi ha stravolto di sorpresa e passione. Penso sia giusto stare lì, la misura non importa».
Da futuro papà, riconsidera il rapporto con suo padre? Non vi parlate più dal 2022.
«Non so che cosa significa essere padre. Ho un’enorme felicità nel pensarci, nel vedere il pancione, toccarlo, non ho la dimensione del ruolo. Vedremo, non è che prima avessi smesso di fare considerazioni in merito».
L’anno scorso suo padre ha scritto e poi cancellato un messaggio su Facebook in cui la accusava di essere stato crudele con lui.
«Leggerlo mi ha turbato, mi ha fatto male. Non so che cosa lo abbia portato a scriverlo... Lo ha cancellato subito, significa che si è reso conto. Quando si sbotta si dicono cose senza pensarle veramente, lui in particolare lo fa. Ha tanti pregi, ma una pessima gestione della rabbia».
Immagina di risolvere la faida nel tempo?
«La speranza c’è perché è una situazione che farà sempre tristezza. Rimane un dispiacere immenso. Come si fa a sapere se e come si può sistemare...».
Parole sue: «Mi hanno fatto diventare subito un professionista, di colpo». Il metodo che l’ha portata a essere un campione o c’erano altre vie?
«Avrei preferito evitare quel danno. Avrei accettato le rinunce, non ero pronto a farlo da zero a cento, a quell’età. È stato brutale, un anno in particolare: il 2013. Ho iniziato nel 2009 e fino ai Giochi del 2012 imparavo, miglioravo, mi divertivo. Era semplice. Poi, sono diventato abbastanza bravo per fare di più e per riuscirci mi hanno imposto un’altra esistenza. Senza gradualità. Sono andato via di casa un mese per protesta e non credo di aver mai digerito del tutto le regole che pure ho scelto di seguire».
Che cosa era insostenibile?
«Ho vissuto quell’anno come un tradimento. So che si voleva il mio bene... Mio padre che mi allenava meticolosamente, la federazione, le Fiamme Gialle che allora erano la mia squadra militare. Mi hanno obbligato a un rigore assoluto, destabilizzante per un ventenne. Per esempio: allora andavo tutte le sere a cena a casa di Chiara. Succedeva da quattro anni. All’improvviso vietato, “se ti alleni il giorno dopo, no”. Orario insindacabile per dormire, per svegliarmi. Tutti imperativi serissimi imposti a un ragazzo super socievole: è stato un camion dritto in faccia».
Alessia Trost, ex altista da 2 metri, si è allenata una stagione con voi e l’ha definita «la scuola siberiana del salto in alto». Ha aggiunto, «per me era insostenibile».
«Anche per me. Eppure, mi ha consentito di raggiungere questi risultati. Dopo l’oro ai Mondiali del 2023, il primo senza mio padre, ho ammesso di dovergli la tecnica, la disciplina, il metodo. Ho imparato da lui a studiare ogni dettaglio, a valutare qualsiasi variabile della dieta. Ho ereditato la visione. “Scuola siberiana” è azzeccato... Immagino di averla subita e dopo accettata perché sono suo figlio. Un estraneo poteva solo scappare».
Perché lei ha accettato?
«Per vincere. Giocavo a basket, mi esaltava. Non ero abbastanza bravo per eccellere, nel salto in alto sì».
Molti azzurri di ultima generazione rivendicano l’importanza del viaggio oltre al risultato.
«Li invidio, ammiro chi si gode il viaggio. Devi amarlo però e a me non è capitato. L’unica motivazione erano i grandi obiettivi. Non esiste una scelta giusta, non è obbligatorio ossessionarti, io l’ho imparata così».
Quindi, fino a Los Angeles 2028 altra ossessione?
«Cerco di renderla più gestibile. So che vicino al traguardo sarà impossibile».
Dopo la separazione da suo padre non ha più voluto un allenatore. Preferisce un team di sostegno.
«È la paura di cambiare strada e anche di disperdere dodici anni di lavoro su un metodo che funziona. Sarebbe un’incognita. Mi appoggio a un gruppo di persone fantastiche che ho scelto anche per la capacità di essere squadra: nessuno di loro, a partire da Giulio Ciotti che mi supervisiona, si sognerebbe mai di presentarsi con una verità in tasca».
A 33 anni si migliora o si spera che gli altri stiano fermi?
«Pensare adesso alle performance mi mette in difficoltà. Mi devo dare tempo. A Parigi stavo male, ma ero convinto di poter saltare 2 metri e 40 e probabilmente lo penserò fino a che muoio. Non mi immagino mai che gli altri siano meno competitivi, anzi i ragazzi italiani che si fanno notare sono uno stimolo: Sioli, a 19 anni sul podio agli Euroindoor, Sottile che dopo il quarto posto olimpico dimostra la crescita nonostante gli infortuni. Loro sono una fortuna».
Dà consigli?
«Per Sotti cerco di essere un fratello maggiore, gli ho passato anche uno dei miei fisioterapisti. Condivido le conoscenze, non mi tengo segreti. Sono una persona buona».
Ed è considerato così?
«Spero. Tra me e i giovani saltatori c’è un rapporto stupendo. Detesto il nonnismo».
Da capitano, che idea si è fatto del caso spionaggio che ha coinvolto Tortu e Jacobs?
«Ho un bel rapporto con entrambi e sono dispiaciuto. Sono rimasto sorpreso e contento della reazione di Marcell, tutt’altro che scontata. Spero non sia di facciata. Se davvero Filippo non sapeva nulla, pure lui sta vivendo conseguenze complesse. Mi auguro che le cose si chiariscano meglio in modo da non lasciare proprio nessuna ombra».
A prescindere dalla questione giudiziaria, come percepiva la rivalità tra loro?
«Ho incrociato comportamenti ben peggiori tra rivali. Loro hanno vissuto un’esperienza anomala: Filippo era la super star; dopo, Marcell è diventato la super super super star. Uno sbalzo netto, violentissimo che può aver creato squilibri importanti. Ma dispetti tra loro non ne ho mai visti».
Due aspetti di lei che vorrebbe passare a sua figlia e due che spera lei non erediti.
«Vorrei avesse il mio rispetto e la determinazione... Per il resto speriamo sia tutta Chiara. Le eviterei la testardaggine e il rancore. Io sono buono buono, purtroppo se mi fanno qualcosa non riesco a lasciar scorrere».
Si siede sulla riva del fiume e aspetta?
«Non aspetto. Lo risalgo. Non so perdonare».
Se potesse cambiare un pezzettino di mondo per sua figlia?
«Mio nonno mi ha insegnato che se dici qualcosa la parola data vale. Oggi assicuri, prometti, firmi contratti e nulla conta. Mi fa uscire di testa e fatico ad aprirmi con altre persone: sono al riparo tra i miei amici sicuri, me li tengo stretti come il pane e circuito chiuso. Ho incrociato troppe persone non sincere. Peccato».
Per la perfezione: quali doti prenderebbe da altri atleti?
«Il talento fisico di Mattia Furlani. Se compariamo il mio e il suo, è come se io giocassi in Promozione. Il suo salto in lungo è uno spettacolo. Il piede a terra, la capacità di spinta naturale. È devastante. Però se io fossi stato lui, non avrei sviluppato la forza mentale che ho. Vorrei anche l’estro di James Harden, il mio cestista preferito: sa rendere semplici le cose difficili. Ed è la chiave: tradurre il meccanismo in gesto istintivo, lì scatta il livello».
Al salto in alto serve l’estro?
«Eccome. Se non converti il meccanismo in naturalezza è inutile».