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 2025  giugno 04 Mercoledì calendario

"Scrivo per creare, non per dire Voglio celebrare la vita"

Alessandro Piperno piace ai bambini. «Per la pipa», dice. «La guardano con rapimento».
La pipa gli dà un’aria sicura, eccentrica e severa, lui però si descrive «insicuro e arrendevole nei rapporti sociali e professionali, sicuro solo quando scrivo». Dice sempre relazione e mai connessione: è uno scrittore novecentesco. Insegna letteratura francese all’università. È ossessionato da Proust e Flaubert. È pazzo per la Lazio, quando la allenava Mancini aveva creato il gruppo WhatsApp “Froci per Mancio". Da un lustro dirige I Meridiani di Mondadori. Quando ha vinto il Premio Strega, 13 anni fa, con Inseparabili, è finito in pronto soccorso con la cistifellea rotta. Usa con notevole frequenza la litote, per senso della misura e dell’ironia. Per scrivere, si alza alle 4 e mezza ogni giorno, o quasi. Il suo ultimo libro, Ogni maledetta mattina (Mondadori), ruota intorno a una cosa precisa: scrivere serve a scrivere e fare lo scrittore significa fare lo scrittore. È un lavoro raro, ora che agli scrittori è richiesto di essere tutto e spesso di fare tutt’altro. Questa intervista l’ha accettata premettendo: «Non ho molto su cui pontificare, divento sempre più ombroso e reticente. In compenso ho problemi con il rubinetto in cucina».
Lei si prende sul serio oppure no?
«Prendo molto sul serio il mio lavoro ma non me stesso, e credo che in qualsiasi professione chi aderisce completamente a quello che fa non sia una persona in buonafede, e comunque non del tutto risolta».
Ed è serio quando dice che non è necessario avere qualcosa da dire per scrivere?
«Serissimo. Il movente che spinge gli scrittori, almeno quelli che amo e che leggo da una vita, non è smerciare messaggi bensì realizzare qualcosa di bello e duraturo. Mi sento di escludere che Flaubert abbia scritto i suoi libri perché voleva raccontare la storia di un’adultera o quella di un inetto. Credo che lo abbia fatto, invece, per creare una forma che fosse il più possibile rispondente alla sua esigenza di precisione, bellezza e verità. Che poi questa forma contenga un significato e dei valori, sta al lettore recepirlo, ma non è il punto di chi scrive con un’ambizione artistica».
Se la definissi artista, sarebbe a disagio?
«Riderei un po’».
Non avevo dubbi.
«Nel corso degli anni questa parola ha assunto significati generici. Ai tempi dei letterati che studio, artista era sinonimo di quello che oggi chiamiamo intellettuale. Artista mi fa pensare a Michelangelo, ma sbaglio perché Tolstoj e Leopardi sono stati sommi artisti. Quanto a me, sono certo di non far parte della categoria».
E scrivere la rende felice.
«È stata una conquista: quando ho iniziato era tutto più frustrante. Non che i tormenti siano scomparsi, ma la carica e il piacere sono superiori. E sono convinto che non esista opera letteraria, per quanto isterica e intrisa di pianto, che non sia figlia della felicità. Anche quando parla di morte, la letteratura celebra la vita».
Un libro può cambiare il mondo?
«Il Mein Kampf lo ha fatto, e non in meglio».
Cos’altro le dà piacere, dopo la scrittura?
«Non vorrei essere volgare».
Il calcio?
«Il tifo, che però è un piacere più turbolento, ed è il solo spazio in cui uno come me può concedersi una assoluta e infantile libertà».
Che significa «uno come me»?
«Uno che non crede in niente in senso fideistico. Non ho una fede religiosa e non ho un’autentica passione politica. Amo la mia famiglia, mi piace la letteratura, mi piace la vita nei piaceri che concede. Ci sono persone molto implicate con il mondo, io non lo sono particolarmente ma una partita può rovinarmi l’appetito, farmi andare a letto senza cena, lasciarmi il magone per giorni».
Mi dispiace.
«Siamo molti e tutti disperati noi tifosi».
Ne scriverebbe?
«Ho scritto in passato qualcosa sulla Lazio, ma credo sia uno di quegli argomenti che tanto mi appassionano dal vivo quanto mi annoiano nel momento in cui vengono elaborati. Febbre a 90 di Nick Hornby mi aveva emozionato perché raccontava bene l’amore incondizionato per una squadra che scopri a 7 anni e che resta invariato per sempre. Poche cose sono profonde e longeve come la devozione di un essere umano per la sua squadra del cuore».
Se dice cuore, vado sul personale.
«Tanto so essere elusivo».
Anni fa ha scritto di non rimpiangere di non aver fatto figli. È ancora così?
«Sì. E poi, non auguro l’infanzia a nessuno. Nel mio libro precedente (Aria di famiglia, ndr), raccontavo la storia di un autentico misantropo che si ritrova a fare da padre a suo nipote, ed è stato il mio modo di assolvere ai doveri paterni. Come i figli, i libri si fanno per mandarli nel mondo, liberi».
Mi dice una cosa che la indispone?
«Ma no, io vengo sempre in pace».
Quella che le piace meno?
«L’altro giorno leggevo che Brian Wilson aveva pagato un turnista che andasse in tutto il mondo a fare concerti al suo posto, mentre lui stava in studio. Se avessi un avatar che va in giro per me sarei contento, la promozione non mi diverte, ma so che è giusta e necessaria, soprattutto per I Meridiani. Al di là di tutte le dissertazioni, però, arriva un momento nella vita in cui ti dici: è lavoro, fallo e non rompere le palle».
Perché in esergo ad Aria di Famiglia ha scritto “Non serve credere in Dio per essere un buon ebreo”?
«È un gioco letterario: lo dice un personaggio del libro precedente. Non saprei dire se la cosa mi riguarda anche perché io sono ebreo per parte di padre, quindi a metà. E mio padre è un ateo che tiene in modo profondo alla sua genealogia ebraica e si considera depositario di una cultura millenaria in cui si riconosce».
Quello che succede a Gaza ha cambiato cosa pensa quando pensa all’essere un buon ebreo?
«Non ravviso alcuna relazione tra ciò che succede a Gaza e l’ebraismo. Anzi, ho l’impressione che questa confusione stia generando mostri, e rischi di evocare vecchi orribili spettri».
Tutto ciò che scrive è destinato alla pubblicazione?
«Ci penso ora per la prima volta e sì: credo di non aver mai scritto per me stesso, a parte gli appunti, che prendo sul telefono. E non sono ancora arrivato all’orrore di mandarmi messaggi vocali solo perché mi vergogno».
Non ha mai tenuto un diario quindi?
«No. Ma ho letto quelli di Plath, Woolf, Cheever e sono abbastanza certo che nessuno di loro li abbia scritti per sé. Non significa che pensassero necessariamente alla pubblicazione, ma di certo pensavano a qualcuno, magari al tribunale speciale che ogni scrittore ha dentro di sé: lo stile».
Perché per scrivere è importante conoscersi?
«C’è una relazione profonda tra empatia e immaginazione. Capisci se gli altri sono compassionevoli o invidiosi se la compassione e l’invidia sono sentimenti che conosci».
Qual è la cosa che più l’ha stupita nella sua vita?
«Il covid, e la liturgia delle nostre giornate durante il lockdown. La certificazione per uscire, le suole delle scarpe da pulire prima di entrare in casa. Le paure e i sentimenti loschi, grotteschi. Io non ho smesso, da allora, di provare fastidio per chi tossisce».
Mi dica di più dei sentimenti loschi.
«Dicevano che il virus era mortale solo per gli over50 e io gioivo perché avevo 48 anni».
E com’è andata quando ne ha fatti 50?
«Una mia compagna di scuola ogni anno mi manda gli stessi auguri: complimenti, ti avvicini sempre di più all’età che dimostri».
È pronto per la prossima pandemia?
«No, ma di sicuro avrò l’età giusta per morire».