Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  giugno 04 Mercoledì calendario

Filippine, lo spettro della Cina riavvicinerà i Marcos e i Duterte?

Le elezioni parlamentari e locali del 12 maggio nelle Filippine sono passate riconfermando con poche variazioni la situazione dei due fronti politici, ma la contesa in corso tra l’attuale presidente Ferdinand Marcos Jr e la su vice Sara Duterte eletti nel maggio 2022 persiste. Caratteri e stili politici diversi per gli esponenti di due dinastie che hanno però utilizzato in modo simile retorica, legami e metodi (discutibili) per arrivare a controllare il Paese partendo dalle loro terre ancestrali (e principali feudi elettorali): la provincia settentrionale di Ilocos Norte per i Marcos, la metropoli meridionale di Davao sull’isola di Mindanao per i Duterte. L a contesa tra i due non sembra essersi esaurita con l’arresto e l’estradizione verso l’Aja, l’11 marzo, dell’ex presidente Rodrigo Duterte, il padre di Sara. Un arresto frutto dell’impegno congiunto dell’Interpol e della polizia filippina richiesto dalla Corte penale internazionale per «crimini contro l’umanità» compiuti in due diversi periodi della sua esperienza politica e di governo: tra il 2011 e il 2019, quando era sindaco di Davao, e tra il 2016 e il 2022, nel contesto della “guerra alla droga” da lui dichiarata durante il mandato presidenziale. Periodi in cui azioni istigate da Duterte, e coperte dall’immunità da lui concessa agli esecutori, sono costate fino a 30mila vittime, secondo la stima di fonti indipendenti.
A complicare la situazione politica è sopravvenuta la messa in stato di accusa, il 5 febbraio scorso, da parte del Congresso filippino, di Sara Duterte, anticamera di un probabile impeachment. Sicuramente si tratterebbe di un duro colpo personale per la 46enne vice-presidente, i cui rapporti con Ferdinand Marcos Jr sono stati tesi dall’inizio del mandato, non soltanto a causa di un conflitto di personalità, ma anche di una convergenza che è stata dettata più dalle opportunità politiche che dalle necessità di governo, considerato il contesto di una società in cui il ruolo dei leader, il nepotismo e la fedeltà al gruppo di appartenenza (famiglia, clan, sodalizi, aggregazioni di varia natura e soprattutto interdipendenza economica) continua ad essere fondamentale per generazioni di filippini.
Basti pensare che Ferdinand Marcos Sr, il padre del presidente in carica, ha imposto dal 1965 al 1985 una dittatura (negli ultimi dodici anni sotto un regime di legge marziale) fino a quando Il 25 febbraio 1986 l’Edsa Revolution costrinse i militari a deporre le armi e il dittatore a prendere la via dell’esilio alle Hawaii dove morirà tre anni dopo. Quella che è nota anche come “rivoluzione dei fiori e dei rosari”, la prima rivolta nonviolenta dell’Asia post-coloniale, e l’unica finora ad avere avuto successo, vide il ruolo decisivo della Chiesa filippina, in particolare dell’arcivescovo di Manila e cardinale Jaime Sin. A distanza di 39 anni, quella che include 120 milioni di filippini, è una società diversa, anche se gran parte delle antiche contraddizioni persistono: scarsa adesione ai diritti umani e dignità della persona da parte di molti ambienti politici, forze armate e servizi di sicurezza, divari di opportunità e reddito, povertà diffusa, sono ancora presenti ma contrastati da una informazione coraggiosa e una società civile attiva che groppo spesso rischiano però di pagare ancora oggi un pesante prezzo a causa del loro impegno. Realtà civili, in ogni caso, sostenute dalla Chiesa locale nel richiamare politici e amministratori all’attenzione verso il bene comune e al rispetto dei diritti costituzionali.
I Marcos contano oggi vari membri della famiglia – ben tre generazioni – in ruoli di rilievo a livello nazionale, locale, politico o economico e in qualche modo sono eredi di una tradizione di patronato passata dal dominio spagnolo a quello Usa e transitato nella Repubblica filippina indipendente post-bellica. Se è ormai marginalizzata dall’età, la 95enne Imelda Marcos, vedova del dittatore e madre del presidente in carica, la 69enne sorella Imee è titolare di un seggio in Senato e il figlio 36enne di quest’ultima, Matthew, ricopre la carica di governatore della provincia di origine della famiglia. F erdinand Marcos Jr, 67 anni, già senatore e vice-presidente, ha sicuramente uno stile diverso dal padre e, pur cosciente del ruolo della sua famiglia, ha un approccio pragmatico ai problemi del paese e un rapporto meno divisivo con le forze sociali. Alla sua presenza ora alla più alta carica dello Stato ha contribuito sicuramente la riabilitazione del genitore, culminata con la sepoltura nel 2016 nel Cimitero degli Eroi a Manila. Una iniziativa contestata dalla società civile ma attuata sotto la presidenza di Rodrigo Duterte che, impossibilitato a concorrere due anni fa per un secondo mandato, ha cercato con i Marcos una condivisione dei poteri che coinvolgesse la sua famiglia ma ha finito per travolgerla. S ara Duterte deve ora difendersi dalle accuse di cattiva gestione dei fondi pubblici nel suo ruolo di vicepresidente e di ministro dell’Istruzione, di avere accumulato una ricchezza ingiustificabile oltre che di avere minacciato di morte Fedinand Marcos Jr, la moglie e il presidente del Congresso. Accuse che lei ha sempre contestato ma che una Camera dei rappresentanti favorevole a Marcos vuole portare avanti, verso un risultato punitivo per lei e per la sua famiglia, che rivendica con orgoglio le origine popolane. Nel frattempo, dall’esilio involontario all’Aja, Rodrigo Duterte ha vinto il suo ottavo mandato a sindaco di Davao con il figlio Sebastian come vice. In Parlamento siede pure Paolo Duterte, come il genitore e la sorella arrivato alla politica nazionale, partendo dal controllo della roccaforte di famiglia, Davao, seconda città del paese. La sorte della vice-presidente è ora nelle mani del Senato per un giudizio che si avvicina, posticipato a dopo le elezioni di maggio per non influenzare la scelta dei votanti. S ul “fronte” di questa contesa che domina la cronaca politica, con deviazioni al gossip si gioca però ben altro che non il prestigio o gli interessi di due clan abili nel creare consenso e altrettanto a cancellare la memoria delle loro negatività. Sullo sfondo c’è infatti la realtà di un Paese che non riesce a fare emergere pienamente le proprie potenzialità e cerca di garantirsi una collocazione strategica. Sul primo piano entrambe devono premere sull’accelerazione delle riforme e non solo su quello dei programmi, più populisti quelli di Duterte, più demagogici quelli di Marcos. Entrambe esitano a scalfire i gruppi di potere tradizionali e la rete di clientele nonostante i pesanti limiti evidenziati sul piano delle riforme, delle libertà civili e dei diritti umani.
Sul piano strategico, dopo la deriva filo Pechino di Duterte-padre che non ha mai perdonato le critiche dell’Occidente ai suoi eccessi verbali e al piglio autoritario, l’alleato Usa escluso dal territorio filippino negli anni Novanta è tornato ad essere necessario per contrastare le pretese cinesi sui mari di casa. Contemporaneamente, l’arcipelago è diventato ancor più strategicamente rilevante per Washington nella catena di contenimento alla Cina che va sviluppando in Asia e nel Pacifico. Quasi inevitabile quindi, al di là della propensione filo- americana di Marcos, una convergenza di interessi tra Manila e Washington, che politica e scontri di personalità difficilmente potranno contestare