Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  giugno 03 Martedì calendario

Intervista ad Andrea Carnevale

Suo padre uccise la madre quando Andrea aveva 14 anni. Ha odiato quell’uomo, ha covato rabbia e vendetta. E ha affogato nel silenzio l’infanzia segnata dal dolore. Poi un giorno decise che doveva capire... Andrea Carnevale, tutti gli appassionati di calcio sanno chi è: ex attaccante, oggi dirigente dell’Udinese, ha vissuto il pallone dorato degli Anni 80 e 90 in vetrina, ha riscattato la vita infelice con il lavoro, senza mai tradire quel segreto orribile che un po’ è stato la spinta verso il successo («ero più cattivo, avevo fame»), un po’ il male oscuro che ha condizionato tante scelte e il suo rapporto con le donne. 
Il «destino di un bomber», il libro edito da 66thand2nd che ha scritto con Giuseppe Sansonna, è una liberazione. Una partita nuova da giocare, per vincerla. Lui resta un bomber: «Incontro le famiglie rimaste orfane, vittime. Ho raccontato e scritto per loro. Non si ferma la scia di sangue, e io torno bambino infelice tutte le volte».
Carnevale, cosa ha dovuto capire?«Dovevo incontrare mio padre in carcere, ci sono andato a 16 anni, due anni dopo il delitto. Volevo guardarlo negli occhi, mi aveva tolto tutto. Ebbene, l’ho visto e l’ho abbracciato. Forte. In qualche modo l’ho perdonato, con la consapevolezza di avere di fronte un uomo molto malato. Per tanti anni ho vissuto il dolore ma anche il timore di essere come lui. No, non sono lui. Questo ho capito quando l’ho visto. Ed è stato il primo passo verso la liberazione».
Che cosa aveva suo padre?«Era schizofrenico. Non è stato mai curato, qualche anno dopo si è tolto la vita lanciandosi da una finestra davanti ai miei occhi».
Lei in campo, fortissimo. Vita privata sempre in copertina, per lei parlavano i gol ma anche le serate in discoteca. Il gossip sfrenato, poi un matrimonio da favola con Paola Perego, la separazione complicata, la squalifica per doping, l’arresto per droga. Sul ring sempre a parare pugni… senza mai finire al tappeto. Come ha fatto?«Ci sono finito, eccome. Ma mi sono rialzato. Aggiunga anche che per 20 anni i miei figli, quando è finito il matrimonio con Paola, hanno pensato che fossi andato via di casa, che li avessi abbandonati. Io orfano che lasciavo orfani i miei figli. Capisce? Terribile, come rivivere il mio dramma. Mi sono preso colpe che non avevo, aggrappandomi a un solo raggio di luce: la fiducia nella giustizia. La verità viene fuori, mi dicevo. E il tempo mi è stato amico. Di stupidaggini ne ho fatte tante, per carità. Ma non tutte quelle che si sono dette sui giornali e in tv. La mia risposta è stata il silenzio, io sono abituato a star zitto. Ho vissuto sempre due vite. Il dramma familiare, la depressione, l’ansia, il timore che le mie sorelle fossero affidate ai servizi sociali, tutto senza parlare. Come un tabù, che non ci faceva elaborare il lutto. Bisognava combattere per evitare di disunirci, di darla vinta a chi voleva sgretolare quel poco che ci era rimasto. Eravamo poveri, facevamo fatica a trovare da mangiare. Il calcio ci ha salvati, tutti. Dopo Natali e feste di compleanno mai festeggiati».
Oggi vi rivedete nelle occasioni di feste?«Manca soltanto mia sorella più grande, morta anche lei giovanissima. Con i primi soldi ho comprato subito il nostro casolare a Monte San Biagio, a Latina, dove siamo cresciuti. Pagai 450 milioni delle vecchie lire. Resta il miglior investimento della mia vita: il teatro dell’orrore è diventato il teatro dell’amore. C’è serenità, unione forte, la felicità però è un’altra cosa. Nulla sarà mai come prima. Ciascuno ha la sua vita, mia moglie Beatrice è il mio mondo migliore, la donna che mi ha capito subito, mi ha dato una seconda chance. Il mio tutto».
Ha due figlie, è nonno anche. Che cosa dice loro rispetto al tema della violenza sulle donne?«La prima volta che marito o fidanzato, quel che sia, alza le mani o urla, lasciatelo. Lo rifarà, è certo. Denunciate. Io l’ho fatto all’epoca ma non è servito. Oggi sono testimonial del Telefono Donna, collaboro con le istituzioni, voglio essere in prima linea. La morte di Martina, uccisa a 14 anni ad Afragola, mi ha fatto rivivere Andrea da piccolo. Una ferita che ogni volta torna a sanguinare. Denunciate, dico. Mia madre non lo fece per paura che facessero qualcosa ai suoi figli».
Lei però ci andava dai carabinieri?«Tante volte. Papà era molto geloso, a casa c’era un clima di terrore, io ero lì quando lei prendeva schiaffi, botte. Insulti. Fino a quella mattina del 25 settembre del 1975: lui si è svegliato, ha preso l’ascia. Ha raggiunto mamma che stava lavando i panni nel fiume vicino casa. È andato ad ammazzarla. Sono corso lì, ho raccolto il sangue di mia madre e sono andato dai carabinieri: “Lo vedete adesso il sangue?”».
Adesso in prima linea con le istituzioni. La politica fa abbastanza per evitare queste tragedie?«Bisogna inasprire le pene, fare rete con gli assistenti sociali. Le famiglie sono sole».
Con Paola Perego è finita male, non si è mai capito chi ha tradito chi...«C’era un’altra persona. L’amore era finito, mi sono ostinato a continuare per i bambini. Non volevo crescessero come orfani. Un papà deve provare e riprovare, assumersi le responsabilità. Ho rispettato Paola ma mi sono sentito io non rispettato, troppe bugie. Ho sbagliato in certi momenti a inveire contro di lei per questo motivo. Poi sono stato costretto ad andare via. Ed è successo quello che non volevo: lasciare da soli i bambini, Giulia e Riccardo. Ci sono voluti 20 anni…».
Maradona, cosa le dice questo nome?«Scudetto a Napoli, 10 maggio 1987: il giorno in cui mi son detto che ce l’avevo fatta. Diego era sorriso, generosità, una grandezza umana. Quando non giocavo era lui a mettersi in mezzo fra me e l’allenatore. Le sue auto a disposizione di tutti. Vincemmo lo scudetto e regalò a tutti i compagni tre fedine. Sa che è stato Diego a farmi conoscere Paola? Piaceva a lui e si era fatto dare il numero di telefono, lo segnò su un pezzo di carta. Rubai quel foglietto dai suoi pantaloni».
Lo scudetto col Napoli, il primo successo.«Ero al settimo cielo, eppure ero l’unico a non piangere. Non ho mai più pianto dopo la morte di mamma. Sono stato litigioso, ho risposto agli allenatori, e Bianchi ne sa qualcosa, ho preso tantissime multe. Mi battevo, avevo forza. Non più lacrime».
Il doping e la squalifica nel 1990, altra mazzata.«Fu colpa mia. Ero alla Roma. Fui squalificato per assunzione di uno stimolante, la fentermina, presente nel Lipopil che assumevo per perdere peso. Fuori un anno».
L’arresto per droga.«Una telefonata che non dovevo fare, un millantatore che mi accusò. Va bene tutto, ma la droga no! Ho trascorso un mese ai domiciliari, nessuno mi credeva. Anni di processi. Fui assolto».
Il calcio più gioia o delusione?«Anche nelle delusioni, per me è sempre stata una gioia. La delusione più grande è stato il mondiale (Italia 90 ndr)? Sì, ma ho fatto un mondiale. Schillaci, che oggi non c’è più, il mio grande amico che dormiva con me in stanza è stato molto più bravo».
Un ricordo di solitudine?«Lo racconto nel libro: ero ragazzo, il viaggio in nave da Civitavecchia a Olbia per fare un provino con la Juve, l’attesa di 4 ore sulla banchina, nessuno veniva a prendermi».
Soldi o passione?«Giocavo a pallone perché volevo mangiare un panino. Per fame. Quando ero con i dilettanti dicevo: dammi un piatto di gnocchi e un pollo la domenica. Ed ero felice».
Poi ne ha guadagnati e spesi tanti?«Sì ma è un attimo ritornare ad avere fame. Serve attenzione. Io sono caduto e ricaduto, un momento prima mi sentivo come dio».
Com’è la sua seconda vita?«Normale, una parola meravigliosa».