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 2025  giugno 03 Martedì calendario

Intervista a David Parenzo

David Parenzo, a bruciapelo: lei le guarda le foto dei bambini uccisi a Gaza?
«Sì. Non faccio altro che guardarle. E se qualcuno pensa che per il fatto di essere ebreo quelle immagini mi facciano meno male di quanto me ne farebbero se i bambini uccisi fossero israeliani, quel qualcuno è fuori di testa».
Come chiama l’offensiva di Israele a Gaza?
«Una sporca guerra. Iniziata e voluta il 7 ottobre da Hamas, non da Israele».
Brutalmente: chi sta vincendo questa guerra?
«Nella società delle immagini le immagini sono tutto. Su questo fronte, Hamas ha già vinto e Israele ha già perso. Vede, come tutto il mondo io guardo tutti i giorni le foto dei corpi dei bambini uccisi a Gaza. Ma, al contrario di tutto il mondo, ho visto anche le immagini del massacro del 7 ottobre che Israele non ha voluto diffondere per tutelare le vittime e le loro famiglie. Ho visto questo documento di un’ora insieme ad altri giornalisti al chiuso dell’ambasciata israeliana a Roma, col divieto assoluto di fare riprese. Lo sa qual è la parte del filmato che non riesco a cancellare dalla testa? Le immagini dei bambini israeliani rapiti da Hamas in un kibbutz, separati dai genitori e messi in una stanza attigua: in una stanza i genitori venivano torturati e poi uccisi, nell’altra c’erano i bambini costretti ad ascoltare tutto. Questo succedeva prima dei bambini uccisi a Gaza. Senza questi morti non ci sarebbero stati quelli di Gaza».
Nelle opinioni pubbliche occidentali, l’equazione Netanyahu uguale Putin è diffusissima.
«Netanyahu è un leader che non voterei mai. Ma è il capo del governo di un paese democratico che ha tutti i pesi e i contrappesi delle democrazie. Non un autocrate, men che meno un dittatore».
Lei non ha firmato il manifesto promosso da Gad Lerner e altri in cui si leggeva, tra le altre cose, che «ebree ed ebrei italiani dicono no alla pulizia etnica». Perché non si è dissociato come loro dal governo israeliano?
«Scusi ma perché dovrei dissociarmi? E da che cosa? I terroristi si dissociano dai gruppi terroristici di cui avevano fatto parte. Io non ho fatto parte di alcun gruppo terrorista e non ho nulla da cui dissociarmi. Il diritto di critica nei confronti di Netanyahu è giusto e doveroso, lo esercito anche io; ma lo esercito da cittadino italiano, non da ebreo. L’uso della patente da ebreo sulla firma degli appelli è una cosa fuori dal mondo. Le faccio io una domanda: è giusto sottoporre a un americano all’estero un appello contro Trump?».
Certo.
«E io sono d’accordo con lei su questo. Ma tornando a Netanyahu e agli appelli firmati o non firmati, faccio notare che io sono ebreo, non israeliano, perché chiedere conto agli ebrei di quello che fa un governo eletto da israeliani? A Washington sono stati uccisi due ebrei da un criminale che gridava “free Palestine”. Forse anche loro avevano la colpa di non essersi dissociati e di non aver firmato appelli?».
Domanda per il cittadino italiano. Su Netanyahu pende una richiesta d’arresto da parte della Corte penale internazionale. Se venisse sul suolo italiano, dovrebbe essere arrestato?
«Sì. Per il rispetto delle leggi e degli accordi internazionali, dovrebbe. Ma visto il contesto in cui sono state costruite le prove a suo carico, sarebbe comunque una decisione politica».
Lei la prenderebbe questa decisione?
«Per fortuna non decido io».
Secondo lei, che culturalmente appartiene al campo progressista, come si sta muovendo il governo Meloni sul fronte mediorientale?
«Rivolgo quotidianamente tante critiche a Giorgia Meloni, soprattutto per la sua scelta di non sottoporsi al confronto con i giornalisti con cui sente di non avere, come dire, una certa affinità. Ma sulla vicenda di Israele, e in generale sulla politica internazionale, penso che lei e i ministri Tajani e Crosetto si stiano muovendo benissimo».
David Parenzo la mattina conduce l’Aria che tira su La7 e il tardo pomeriggio, insieme a Giuseppe Cruciani, si lancia nel fango de La Zanzara su Radio 24. Gli era rimasta libera la notte. E, nell’ultimo anno, l’ha usata per scrivere «Lo scandalo Israele», in uscita per Rizzoli. Partendo dai sette ingredienti della challah, il pane della festa, racconta sette storie che nutrono la radice «scandalosa» («È l’unica democrazia del Medio Oriente, di per sé uno scandalo!») dello stato d’Israele. Tra queste, la vicenda di Yuval Biton, il dentista che aveva curato in carcere il capo di Hamas Yahya Sinwar, la mente del 7 ottobre; e la storia di Ella, la prima donna araba arrivata al rango di tenente dell’Idf, le forze di difesa israeliane.
Parenzo, che cosa votavano a casa sua?
«Mia madre Partito repubblicano, poi Radicali; mio papà ha votato per il Partito comunista, poi per il Pd».
Ha frequentato le scuole ebraiche?
«No, le scuole pubbliche. Fu a scuola, al ginnasio, che vidi su un volantino la campagna della Sinistra giovanile, all’epoca guidata da Nicola Zingaretti, che partiva da un numero: 174517, il numero tatuato sul braccio di Primo Levi. E decisi di iscrivermi».
Fece carriera?
«Da Padova il partito mi mandò a Roma da Enzo Amendola e Federica Mogherini, che all’epoca erano i referenti nazionali del Dipartimento degli Esteri dell’organizzazione. Mi chiamarono a far parte della delegazione della Sinistra giovanile mandata a Belgrado tre anni prima dei bombardamenti della Nato a parlare con gli oppositori di Milosevic».
Particolari doti politiche?
Non vado a nessuna manifestazione che non sia quella per il 25 aprile insieme alla Brigata ebraica. Credo in due popoli, due democrazie
Il fiuto per gli affari la accompagnava già all’epoca?
«Da prima ancora. A sedici anni, nel periodo del grande Padova di Nanu Galderisi e Angelo Di Livio, dove giocava anche l’americano Alexi Lalas, lo Stadio Euganeo non era distantissimo da casa mia. Quando c’erano le partite in casa col tutto esaurito, mettevo a disposizione tre posti macchina nel passo carraio in cambio di una piccola mancia».
Ha un passato da parcheggiatore abusivo, insomma.
«Un detrattore potrebbe anche metterla così, sì».
Il suo canto del cigno in politica?
«Il congresso che elesse Piero Fassino nel 2001. A Padova ero uno dei leader della mozione che sosteneva Enrico Morando, quella iper-riformista, con Emanuele Macaluso e i miglioristi. Girai l’Italia con Franco Debenedetti con la sua macchina a presentare la mozione, mangiai con lui nei migliori ristoranti del Piemonte e non solo. Perdemmo clamorosamente. Era meglio Fassino».
La sinistra italiana che oggi contrasta Israele l’ha delusa?
«C’è una pluralità di posizioni espresse. Io mi riconosco in quelle di Fassino, Amendola, Guerini, Picierno e anche Calenda e Renzi, che considero sempre di sinistra».
Andrà alla manifestazione del centrosinistra per Gaza?
«Non vado a manifestazioni che non siano quelle per il 25 aprile insieme alla Brigata Ebraica. E non credo più alla formula “due popoli, due Stati”. L’unica strada è “due popoli, due democrazie”».
Al giornalismo com’è arrivato?
«Grazie a Sandro Curzi, che conobbi moderando un incontro alla Festa dell’Unità. Dopo il dibattito mi propose di iniziare a scrivere per Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista di cui era direttore. Scrivevo corrispondenze da quel Nord-Est in cui cominciava a prendere piede un’economia dalla visione globale ma fortemente ancorata al territorio, grazie a imprenditori come Renzo Rosso. La rubrica si chiamava “Hamburger&Polenta”».
La tv?
«Esordi a Telenuovo a Padova. Poi a Telelombardia grazie da Angelo Guglielmi, che stava nel consiglio di amministrazione, e Daniele Vimercati, che dirigeva i servizi giornalistici».
Fu favorito dal fatto di essere parente dell’editore, Sandro Parenzo?
«Lui era contrario all’idea di mandarmi in video subito. Sosteneva avessi poca esperienza».
Il sodalizio con Giuseppe Cruciani come nasce?
«Visto per la prima volta nello studio di Tetris, su La7, condotto da Luca Telese. Dopo la puntata andammo a cena, parlammo per ore tra scherzi e battute, e alla fine mi fece: “Ma perché tutte ‘ste cazzate non vieni a dirle alla radio?”. Iniziammo così, con me che facevo i collegamenti impossibili nelle situazioni più disparate e disperate. Una volta, sull’Eurostar, la linea andava e veniva. Mi chiusi in bagno, infilai il telefonino nel water e tirai lo sciacquone in diretta. Il marchio di fabbrica dello sciacquone tirato mi accompagna ancora oggi».
Se le chiedono chi è, come risponde?
«Sono padovano, veneto, italiano, europeo e super europeista, ebreo».
Ebreo viene per ultimo.
«Proprio come disse Henry Kissinger scontrandosi con Golda Meir nei colloqui tra Israele e Stati Uniti durante la guerra dello Yom Kippur. Alla premier israeliana, che infastidita per l’iniziale lentezza degli aiuti dell’amministrazione Nixon aveva fatto notare a Kissinger che “lei è ebreo come noi”, lui aveva risposto: “Prima di tutto sono cittadino statunitense, poi sono il segretario di Stato e infine sono anche ebreo”. E Meir: “Appunto. Come sa, noi leggiamo da destra a sinistra”».
Non teme che Israele non voglia la pace?
«Israele vuole sempre la pace. La pace con l’Egitto e gli accordi di Abramo con gli Emirati Arabi, che resistono anche dopo il 7 ottobre, sono là a testimoniarlo».