Corriere della Sera, 2 giugno 2025
Intervista a Dan Peterson
Coach Peterson, cominciamo con la domanda che mezza Italia aspetta?
«Prego».
Lei è stato davvero un agente della Cia?
«No. Però...».
Però?
«Però è vero che andai ad allenare la nazionale cilena nel 1971 con i Corpi di Pace americani e che Nixon voleva sapere per filo e per segno quello che facevo laggiù, nella terra di Allende. In un certo senso, ero “in missione”».
Due anni dopo, il colpo di Stato di Pinochet.
«Lasciai Santiago del Cile dodici giorni prima».
Per venire in Italia.
«A Bologna, città “rossa”, almeno all’epoca».
Lei è nato nel 1936. Da bambino, mentre giocava nella sua casa di Evanston, Illinois, immaginava che sarebbe diventato un allenatore di pallacanestro?
«No, c’erano altri problemi. Per esempio, la Grande Depressione. Ricordo bene il salvadanaio che ricavammo da un barattolo di marmellata: si risparmiava ogni centesimo».
Si faceva fatica?
«Papà era poliziotto, un semplice appuntato. Guadagnava 22 dollari alla settimana. Non si ragionava in termini di mesi, men che meno di anni, ma di settimane. Un gallone di latte, quattro litri, costava 22 centesimi».
Si viveva alla giornata?
«Sì. Ho imparato allora la tecnica dei piccoli passi».
Poi nel 1941, l’attacco a Pearl Harbor cambiò tutto.
«Era una domenica fredda di dicembre. Io e mio fratello in salotto, mamma cuciva e papà ascoltava le notizie. Di colpo calò il silenzio. Mio padre disse: “Siamo in guerra”. Io chiesi che cosa fosse la guerra e lui rispose: “Gente che combatte. Roba brutta”».
La sua famiglia ha combattuto?
«La sorella di mia madre, un giorno, sparì misteriosamente. Sei mesi dopo, riapparve come se niente fosse stato. Soltanto in seguito conoscemmo la verità: era entrata nella squadra di J. Robert Oppenheimer e si era trasferita a Los Alamos».
Dove si stava fabbricando la bomba atomica.
«Lei era una delle telefoniste di Oppenheimer, ruolo delicatissimo per il rischio della fuga di notizie».
Se lo ricorda l’attacco a Hiroshima e Nagasaki?
«Come se stesse avvenendo adesso. Fu allora che capimmo che cosa aveva fatto mia zia. Lei piangeva in silenzio. Sposò un eroe di guerra».
Un combattente?
«Mio zio era in una delle imbarcazioni del D-Day, lo sbarco in Normandia. Sbarcò due volte, nella seconda stava per rimetterci la vita. Tornò a casa senza un graffio, ma dopo la guerra diventarono tutti alcolizzati».
Lei, però, aveva il basket.
«Papà avrebbe voluto che facessi l’avvocato, mamma l’artista. Io però osservavo papà che nuotava nel lago Michigan: decisi che lo sport sarebbe stata la mia casa».
Prima le squadre dell’università del Michigan e la USNA, poi, nel 1966, capo allenatore all’università del Delaware.
«In quell’anno i soldati americani in Vietnam erano quasi 400 mila. Due dei miei cestisti andarono in guerra».
Erano anche gli anni di Elvis e dei paradisi hawaiani dei suoi film.
«Il più grande di tutti. Ma ricordo che ho incontrato anche Chuck Berry a Las Vegas. Oggi l’America è un Paese diviso, forse più di allora».
Che cosa è successo davvero a J.F. Kennedy?
«Mio padre era convinto che a ordinare l’assassinio era stato Lyndon Johnson».
E a Marilyn Monroe?
«Chi lo sa? Io ho tanti dubbi su quella morte. Ma non sono un complottista».
Arriviamo al 1971, lei viene mandato in Cile. Una spedizione sportiva molto particolare perché ci andò con i Corpi di Pace.
«Un’organizzazione che tendeva a promuovere la cultura americana. Ecco perché il presidente Nixon voleva essere informato. Trovai un Paese bellissimo ma diviso, tra la destra e la sinistra, diciamo così. Un giorno arrivò una soffiata: quelli di destra volevano sabotare le condutture dell’acqua. Non accadde nulla, ma capii che era ora di far rimpatriare la mia famiglia».
La sua prima moglie, Sue, e i suoi quattro figli.
«Io restai ancora un po’, poi venni in Italia. La Virtus cercava un allenatore, e così...».
La stampa la accolse freddamente. Qualche titolo: «Peterson chi?».
«Cominciai nel ’73, l’anno dopo vincemmo la Coppa Italia, nel ’76 lo scudetto».
Quindi l’Olimpia Milano. Iniziò allora il periodo del celebre «sputare sangue», parole sue.
«Meneghin, D’Antoni, Gallinari. Che anni».
Poi arrivò Giorgio Armani.
«Veniva a ogni partita dell’Olimpia. Quando ci incontrammo la prima volta, io indossavo un suo completo, che mi avevano fatto su misura. Lui non disse una parola, ma nello stringermi la mano mi sistemò il polsino. La classe».
Dino Meneghin.
«Una delle persone più belle che io abbia mai incontrato. Una volta gli dissi: “Dino, io vorrei prendere Joe Barry Carroll, in qualche modo potrebbe toglierti spazio”. Dino rispose: “Coach, per me quello che conta è che vinca la squadra”. Questo è Meneghin».
Gli scherzi di Dino.
«Una trasferta nei boschi chissà dove. Io dissi: “Mi ricordano i boschi del Wisconsin”. Da allora ogni volta che vedevamo un prato spelacchiato, Dino mi faceva il verso: “Oh, i boschi del Wisconsin!”. Ma come facevo ad arrabbiarmi? Ridevo anche io».
Il suo accento americano è irresistibile. Ma come ha fatto a non perderlo?
«Perché in Italia volevano questo! Io ero l’amico americano amato negli Anni Ottanta. Erano gli anni della cultura pop, del wrestling e del basket, erano anni in cui piaceva uno che urlava “fe-no-me-na-le!”».
E in Italia c’era un ricco imprenditore che aveva capito tutto questo.
«Silvio Berlusconi».
Racconti.
«Scrivevo per una rivista di basket. Il proprietario, Bogarelli, nel 1981 comprò per primo in Italia i diritti televisivi delle partite Nba, salvo poi cederli a Berlusconi a partire dall’annata 1981-82. Il Cavaliere mi mandò a chiamare».
Lei però era sotto contratto con Bogarelli.
«Sì, e Silvio mi disse una cosa molto semplice: “Peterson, si ricordi che se viene a lavorare con me non sarà mai un uomo povero”».
Le piaceva Berlusconi?
«Sì, un uomo pratico, come Trump. Che non mi dispiace, per inciso. Ma io sono americano, tifo per l’America, ho votato anche Kennedy».
L’ultima volta che ha votato?
«Quarant’anni fa, per Reagan. Poi non ho più votato. Però mi lasci dire un’altra cosa su Berlusconi».
Prego.
«Molti pensano che sia stato solo un uomo ricco e spregiudicato, ma lui sapeva essere anche raffinato. Una sera mi invitò a cena e sa chi c’era a tavola? Walter Cronkite, una leggenda del giornalismo mondiale. Silvio aveva avuto l’accortezza di accostare le nostre due personalità, di americani e di giornalisti».
È vero che Berlusconi la voleva per allenare il Milan?
«Sì, diceva che io potevo allenare qualunque cosa».
Poi presero Sacchi.
«La verità è che io nella vita ho commesso un grande errore: mi sono ritirato a soli 51 anni, nel 1987. Avrei dovuto prendermi un periodo di riposo, pensarci bene».
Però da allora lei è diventato famoso: le telecronache di basket e di wrestling, gli spot del the con lo slogan «Per me, numero uno».
«Vero. E ho conosciuto persone bellissime».
Sua moglie Laura Verga.«Ci siamo sposati due volte, una a Miami e una ad Assago. Testimone: Dino Meneghin».
La signora Laura, con ironia raffinata, spiega perché sul citofono di casa c’è scritto “Verga-MachoMan”: «Non è riferito a mio marito, ma al nostro gatto». Canestro!