Corriere della Sera, 2 giugno 2025
Ugo Stille, logica del fuoriclasse
Nel primo dopoguerra inviava i suoi articoli dalla sede del «New York Times» con l’alfabeto Morse, unico sistema di trasmissioni istantanee tra America e Italia. Appena poté telefonare regolarmente da casa dettava, spesso a braccio, i pezzi agli stenografi del giornale, che glieli rileggevano per accogliere eventuali limature. Certo, scriveva a macchina, ma non si convertì mai a fax o pc, preferendo la routine della dettatura, magari improvvisata e senza appunti. Metodo che sbalordiva tutti, perché quei resoconti dimostravano ordine mentale, acutezza d’analisi e fluidità di ritmo inarrivabili. Avevano il calore del linguaggio parlato. Così, il primo marzo 1987, quando firmò l’editoriale d’esordio da direttore, ci si chiese se anche quelle righe fossero giunte con la solita prassi. E gli stenografi superstiti annuirono con riluttanza, quasi per rispettare un segreto: non sapevano se il «fondo» fosse stato preparato prima, ma lo aveva sillabato lui dal proprio ufficio, a pochi metri da dove loro lo ascoltavano in cuffia, per portarglielo poi dattilografato.
Non era un particolare insignificante, la sclerotica mania di un giornalismo remoto, perché quella capacità di unire distacco emotivo, logica e chiarezza nei suoi testi, come accadeva nelle sue riflessioni a voce alta, faceva di Ugo Stille un fuoriclasse. Era uno dei punti di forza, e di mistero, dell’uomo che per più di quarant’anni fu il corrispondente del «Corriere della Sera» dagli Usa, chiudendo la carriera al vertice del giornale nel 1992. La parola mistero per lui si legava al prodigio di una competenza rara, che gli permise d’interpretare al meglio gli arcana della politica internazionale, diventando «il canale di comunicazione privilegiato» tra Washington e Roma.
Enigmatica la sua stessa identità, cui accenna in quell’articolo di fondo, concedendosi per la prima volta un chiarimento personale: il suo ritorno in Italia «chiudeva un cerchio che i tragici anni delle persecuzioni razziali sembravano aver spezzato». Stille infatti è ebreo, nato nel 1919 (ma la data è incerta) non a Mosca come si crede, ma a Kreutzburg, in Lituania, o a Mir, già in Polonia e oggi in Bielorussia. All’anagrafe è Mikhail Kamenetzky, ha un padre odontoiatra nella capitale zarista che, con il dominio dei bolscevichi, sposta il focolare della famiglia tra Germania e Lettonia. Per cancellare le tracce. Infine, cala in Italia e si stabilisce nel 1922 tra Napoli e Roma. Qui si forma il giovane Misha, come lo chiamano. Liceo classico al Tasso, filosofia alla Sapienza (110 e lode), mentre interviene su «Oggi», il settimanale di «lettere e arti» di Pannunzio e Benedetti.
Tra i suoi amici, il più caro è Giaime Pintor, con il quale condivide lo pseudonimo di Ugo Stille, alternandosi a siglare con quell’alias ispirato da una poesia di Rilke articoli antifascisti sui giornali. Ed è famosa la lettera che Giaime indirizza al fratello Luigi, missiva elevata a manifesto dell’epica resistenziale, citando Misha poco prima di essere ucciso da una mina. Per i Kamenetzky, sotto l’incubo delle leggi antisemite, è l’ora di cercare un’altra patria: l’America. Che raggiungono nel 1941 da Lisbona, con un visto ottenuto grazie al futuro Papa, Giovanni Battista Montini. A New York, Misha prende contatto con le élite culturali finché è reclutato come sergente dall’esercito Usa che lo rispedisce in Italia, a dirigere le radio alleate durante lo sbarco in Sicilia e seguendo le truppe nell’avanzata fino a Milano. E qui scatta il rapporto con il «Corriere» che, a conflitto concluso, gli offre nel 1946 di collaborare da oltreatlantico.
Accetta e sulle rive dell’Hudson, a una festa per Truman Capote, conosce Elizabeth Bogert, alta borghesia wasp, arrivata lì con il marito americano e uscitane sottobraccio a lui, che sposa nel 1949, dandogli due figli. Se nelle relazioni si rivela affascinante, nel lavoro Stille produce miracoli. Maturati senza trucchi o manipolazioni, ma interpretando notizie frammentarie e divagandoci sopra con geniale chiaroveggenza. Avviene nel 1952, quando la Casa Bianca sigilla la soluzione per Trieste divisa, che il ministro degli Esteri italiano, Carlo Sforza, ignora. Tanto da farlo sbottare indispettito: «Potremmo anche abolire la nostra ambasciata negli Stati Uniti, tanto ci sono gli articoli di Stille…». E questi esempi sono molti. Nel frattempo, ottiene la cittadinanza americana – come Ugo Stille – che diventa per lui l’unica, perché il regime gli aveva tolto la nostra, essendo Michele Kamenetzky «un apolide di razza ebraica».
Erano gli scoop, «a colpi di ragionamento» che ha sempre inseguito e che raccomanda agli inviati, il mattino in cui rientra in via Solferino per dirigere il giornale cui è rimasto fedele. «Meglio chiudere la partita con il colore e con la spettacolarizzazione degli eventi, tenendo a bada le passioni politiche... Cercate piuttosto la vera notizia nascosta dentro ogni notizia».
Tanti colleghi non lo hanno mai visto prima e quando l’incontrano nei labirinti buzzatiani di via Solferino notano la somiglianza con il filosofo Jean-Paul Sartre: occhiali in tartaruga dalle lenti spesse su un volto segnato da una sottile rete di rughe, sorriso empatico, capelli grigio ferro scompigliati, voce arrochita dal fumo della pipa. Il fatto che vesta con ruvide giacche di tweed, alle quali associa camicie button down slacciate, lo fa sembrare ai più superficiali un’icona dell’intellettuale-tipo. Ignorano che quell’immagine non è una caricatura snob, ma tradisce soltanto voglia di comodità. E che Misha alle spalle ha una vita romanzesca su cui si è forgiato il suo impenetrabile carisma. Già, perché è un colto cosmopolita e poliglotta che ha attraversato mondi e storie dure del Novecento, soffrendo la tragedia imposta dalle catene ideologiche: rivoluzione comunista, fascismo, Shoah, guerra mondiale e guerra fredda. Una caotica sequenza sulla quale alza – ma poco – il velo nei colloqui notturni, nella sua residenza di via Cernaia, scivolando in qualche malinconica confidenza. Tutt’altro che un anaffettivo, insomma.
Al giornale non si occupa di menabò e titoli, di organizzazione sa poco e niente, non è mestiere suo. È stato scelto per quella sfida come una gloriosa bandiera del «Corriere», che può liberare il giornale dalle incombenti pressioni della politica e difenderlo dall’assedio di una concorrenza all’attacco, perché garantisce credibilità e neutralità. Compito impervio in un periodo di alta tensione e con una crisi morale e istituzionale alle porte, destinata a sfociare in Tangentopoli e nel crollo della Prima Repubblica.
Si affida allo staff e il vicedirettore vicario, Giulio Anselmi, suo braccio destro, fa lealmente il lavoro, in particolare nell’ultimo anno e mezzo. Quando Stille, che ha già il cuore malandato, si ammala dopo la moglie Elizabeth. Va e viene con New York per assisterla e curare sé stesso, ma mantiene la firma, sperando di cavarsela e concludere la partita al comando. Interviene, sempre meno e a distanza. Si rifugia ancora una volta nel telefono. Suggerisce qualche commento o inchiesta, tiene a battesimo inserti culturali e sull’università, oltre a un magazine, e insiste con tutti sulla rotta di navigazione, che vuole sia preservata con equilibrio. «Seguiamo la nostra tradizione: spiegare tutto quello che succede senza distorcere i fatti, così che il lettore si formi un’opinione con il proprio senso critico. L’obiettività, intesa in chiave filosofica, è un concetto astratto. Conta il criterio del buonsenso».
Indicazioni poste morbidamente, conversando a casa di amici della sua prima vita italiana o alla mensa del giornale, dove siede ancora fra tipografi, rotativisti, impiegati e redattori: il quadrilatero del «Corriere» è un alveare ronzante di attività giorno e notte. Un’atmosfera che gli piace. Un anno prima della morte di Stille, avvenuta a New York il 2 giugno 1995, Giulio Nascimbeni sintetizza in un intenerito e telegrafico ricordo l’ultima visita nel suo studio: «Ah, Misha… Lo scatto dell’accendino, la serenità del buon odore di pipa».