la Repubblica, 2 giugno 2025
E Prevost disertò il pranzo per scrivere il discorso “Sapeva già di avere vinto”
Raccontano che anche lui, solo qualche mese fa, escludesse con serenità di diventare Papa, perché, spiegava, «non eleggeranno mai un americano». E invece Robert Francis Prevost non solo è diventato Papa ma è stato eletto in modo sorprendentemente veloce e con una valanga di voti. La nazionalità evidentemente non ha rappresentato un handicap, tanto più che, in realtà, la sua è una biografia cosmopolita che gli ha permesso di intercettare i favori di mondi geograficamente diversi. E di tenere insieme due istanze diffuse all’interno di un collegio cardinalizio plasmato all’ 80 per cento da Francesco: da un lato la necessità di proseguire sulla strada – pastorale, missionaria, sinodale – tracciata da Bergoglio, dall’altra, dopo dodici anni di terremoto bergogliano, mettere un po’ di ordine, far calmare le acque, ricucire gli strappi.
E così, a quanto è possibile ricostruire dalle indiscrezioni che scavalcano il muro di segretezza che circonda un Conclave, già al primo, insolitamente lungo scrutinio, la sera di mercoledì 7 maggio, Prevost sarebbe arrivato primo, con un pacchetto di voti superiore a quelli del cardinale Pietro Parolin, dell’arcivescovo conservatore ungherese Peter Erdo e di numerosi altri porporati su cui si sono distribuiti i voti dei 133 elettori. Un cardinale presente in Cappella Sistina, che preferisce mantenere l’anonimato, sottolinea che i voti a Prevost erano «inizialmente sparpagliati», non venivano cioè da una sola zona geografica o da una sola sensibilità ecclesiale, e si sono coagulati spontaneamente sulla figura dell’agostiniano che, pur essendo uomo discreto, era in realtà noto a molti elettori grazie alle responsabilità ricoperte negli anni (vescovo in Perù, superiore degli agostiniani, prefetto del dicastero dei Vescovi). Ci sarebbe anche stata, però, se non una regia, quanto meno un discreto attivismo a favore di Prevost da parte di alcuni “king maker” che ne conoscevano da vicino le doti di equilibrio, ascolto, impegno pastorale. Tra di essi, il peruviano Carlos Gustavo Castillo Mattasoglio, lo statunitense Blaise Cupich, arcivescovo di Chicago, ilgesuita lussemburghese Jean-Claude Hollerich, relatore generale del Sinodo, e lo scalabriniano italiano Fabio Baggio, una vasta esperienza internazionale sulle migrazioni.
Se la direzione era già tracciata la prima sera, l’elezione si è decisa nella mattinata di giovedì 8 maggio, al secondo e terzo scrutinio. Cruciali sarebbero state le mosse di alcuni porporati, a partire dal filippino Louis Antonio Tagle che, pur essendo entrato in Sistina tra i favoriti, assai presto sarebbe confluito sull’americano portando con sé buona parte dei 22 elettori asiatici. Si sarebbero spostati velocemente su Prevost anche due statunitensi conservatori, Timothy Dolan e Raymond Leo Burke, convincendo a sostenere il porporato nativo di Chicago diversi altri elettori di orientamento moderato. Lo stesso avrebbero fatto gli africani sulla scia del tradizionalista Robert Sarah, rassicurato dall’ortodossia liturgica di Prevost, e dell’arcivescovo di Kinshasa Fridolin Ambongo, animato da un certo terzomondismo.
Sempre giovedì mattina si è andato ingrossando il sostegno a Prevost da parte di cardinali che appartengono a due reti invisibili presenti in Cappella Sistina: i membri del dicastero dei Vescovi, che hanno incontrato Prevost due volte al mese negli ultimi due anni, e molti dei 60 cardinali che hanno preso parte con il futuro Papa alle due assemblee sinodali volute da Francesco nel 2023 e nel 2024.
Sarebbero invece due le aree che non sono subito confluite su Prevost, per così dire alla sua sinistra e alla sua destra: i più puristi dei bergogliani, che avrebbero vagliato figure più movimentiste, e l’ambiente del conservatorismo curiale ed europeo. Ma un certo spirito anti-curiale e anti-italiano, che spirava forte nel Conclave del 2013, aveva tutt’altro che esaurito la propria spinta quest’anno. E Prevost lo ha intercettato perché era il più outisder degli insider, o il più insider degli outsider: per dirla con il cardinale britannico Vincent Nichols, «ha una considerevole esperienza della Curia romana, ma non abbastanza lunga perché venisse identificato con essa». Quanto al cardinale Parolin, che molti davano per favorito alla vigilia del voto, ha evitato lo stallo che si sarebbe creato se attorno alla sua persona si fosse coagulata una minoranza di blocco.
Era ormai chiaro che in giornata Prevost avrebbe superato il quorum dei due terzi. «Giovedì mattina», ha confidato il cardinale belga Jozef De Kesel, «sapevo che entro sera avremmo avuto un Papa». E così all’una il futuro Papa non è sceso al refettorio di Santa Marta insieme agli altri cardinali ma è rimasto nella sua stanza per iniziare a preparare il discorso che avrebbe letto qualche ora dopo dal loggione di San Pietro. Mancava solo la certificazione di quello che tutti ormai sapevano, ed è avvenuta con la quarta e ultima votazione, nel primo pomeriggio di giovedì. Una valanga di schede. Il futuro Leone XIV ha superato di molto il quorum di 89 voti, e su 133 elettori ha ottenuto «una stragrande maggioranza», ha commentato il cardinale peruviano Pedro Barreto, ha preso «100 voti o più». «L’ho ringraziato per avere accettato», ha raccontato a America Magazine il cardinale brasiliano Leonard Ulrich Steiner, «perché quasi nessuno voleva essere Papa: è quasi inimmaginabile nella situazione di oggiun ministero così impegnativo». Non lo avrebbero votato solo alcuni conservatori europei rimasti fino all’ultimo sull’ungherese Erdo, porporati radicalmente scettici sulla svolta sinodale avviata da Bergoglio e abbracciata da Prevost. C’è chi ipotizza, ma senza prove, che anche qualche progressista non sia confluito sul futuro Leone. Qualcuno azzarda numeri da capogiro, vicini al plebiscito. Un fedelissimo del nuovo Papa lancia una battuta inclusiva: «Non lo ha votato solo chi si è sbagliato». Solo pochi mesi fa uno scenario impensabile per lo stesso Prevost.