La Stampa, 2 giugno 2025
I nuovi schiavi
Trafficanti di uomini. Di uomini schiavi. Di lavoratori fatti partire per essere sfruttati in Italia, persone che incrociamo ogni giorno sulle nostre strade senza farci caso. Solo in Piemonte sono emersi ufficialmente 205 casi nel 2024, ma sono molti di più. Come il ragazzo pakistano di 27 anni, che si è messo in viaggio per pagare le cure a sua madre ed è finito al servizio di un imprenditore di Torino a distribuire volantini pubblicitari. Doveva camminare quarantacinque chilometri al giorno, seguito passo a passo da un geolocalizzatore. A tutti spiegava: «Ho un debito, devo ripagarlo».
Come c’è la tratta delle ragazze africane costrette a prostituirsi, incomincia adesso a emergere questo secondo fenomeno che riguarda gli uomini: finiscono a fare i lavori più duri. Nella logistica delle grande distribuzione. Nelle risaie. Nei frutteti e nelle vigne delle Langhe. Altri, soprattutto bengalesi, beffati come certi promessi sposi: hanno pagato per partire con il decreto flussi, convinti di essere chiamati da un datore di lavoro, ma all’arrivo hanno scoperto che il lavoro era inesistente. Fra i tanti, il caso di un ragazzo di 21 anni in viaggio dal distretto di Madraripur, Bangladesh, dopo aver perso tutto in un’alluvione, per ritrovarsi dentro un doppio incubo: doveva essere un muratore regolare a Dubai, è finito muratore schiavizzato in Libia. E poi ancora sguattero in un ristorante cinese, in Italia, senza contratto, a orario continuato.
Il progetto “Commom ground”, finanziato dalla Regione Piemonte, era nato nel 2022 per cercare di prevenire il caporalato dei lavoratori stagionali. È una rete di ascolto, fatta da sindacati, mediatori culturali, centri per l’impiego, con ventisei punti di accesso. Nel giro di due anni e mezzo sono emerse sei mila vittime potenziali. Nel solo 2024 sono state prese in carico 1722 persone. E cosa si è capito? Che stanno cambiando le forme, ma resta lo sfruttamento dei lavoratori di origini straniere.
«La tratta dei lavoratori è anche qui fra noi», dice Comfort Akande. È la vicepresidente della cooperativa «Liberazione e Speranza» di Novara che lavora per «Common ground». Sessantacinque vittime solo in questa provincia nel 2024, alcune finite dentro la rete di certe agenzie nate apposta per sfruttare i migranti: «Ti fanno il pacchetto completo. Dalla partenza all’arrivo. Magari il lavoro esiste davvero, ma devi ripagare il viaggio con trattenute sullo stipendio con interessi altissimi. Ti portano a dormire in posti tremendi, senza acqua né luce. Ma anche lì devi pagare l’affitto. Spesso questi lavoratori vengono controllati con il Gps. Ad alcuni hanno tolto i documenti, per ricattarli. E questo che vediamo da qui, ed è solo la punta dell’iceberg».
Capita spesso ai rider che girano in bicicletta per le consegne a domicilio. Ma c’è anche il caso di un barbiere partito dalla periferia di Casablanca: «Mi chiamo Ahmed, vengo dal Marocco. La mia famiglia è povera e io sono il primo maschio. Quando è morto mio padre, la responsabilità è ricaduta su di me. Un giorno ho visto un annuncio pubblicato sui social network, diceva che c’era la possibilità di andare in Italia per lavorare come barbiere. Ho risposto all’annuncio e mi hanno messo in contatto con la persona che ha organizzato il mio viaggio, fino ad arrivare in Italia nel 2023. Ma, per partire, ho dovuto chiedere un prestito, che adesso devo restituire con gli interessi. Ho iniziato a lavorare come barbiere in un negozio vicino a Novara gestito da un mio connazionale. Dormivo nello scantinato. Non c’era riscaldamento, dovevo lavarmi con il contenitore che veniva usato per raccogliere i capelli e che a fine giornata veniva svuotato e riempito d’acqua. All’inizio dormivo per terra, poi mi è stato dato un divano. Facevo turni massacranti, senza contratto. Venivo pagato sempre in contanti, ma erano cifre irrisorie perché il datore di lavoro tratteneva i soldi per l’affitto».
Il punto di osservazione della cooperativa di Novara è particolarmente interessante perché è vicina al polo logistico della grande distribuzione di Biandrate. Lì dove da anni si combatte una delle battaglie sindacali più cruciali d’Italia. Davanti ai cancelli c’è un cippo che ricorda il sindacalista del «Cobas» Adil Belakhmid, investito da un camionista durante un picchetto. Quattro anni dopo la sua morte, era il 18 giugno 2021, le proteste continuano. Anche Cgil Cisl e Uil pochi giorni fa hanno indetto uno sciopero per chiedere un aumento dei salari. Il 75% dei lavoratori della Lidl è assunto con contratto part-time. Ma tutti hanno in busta paga una voce che si chiama «indennità di flessibilità» da 7,50 euro al mese. Cioè una specie di obbligo di reperibilità. Così lavorano sei giorni su sette: dovrebbero fare 25 ore ma arrivano a 45. La prima causa di un lavoratore peruviano contro questo tipo di part-time è stata vinta. Sono quasi tutti lavoratori di origini straniere: marocchini, tunisini, nigeriani, brasiliani, pakistani. Di fronte a un utile di un miliardo e 300 milioni di euro, lo stipendio medio è di 1.250 euro al mese. Tutte le richieste di aumento sono state respinte dalla multinazionale tedesca, a parte un buono da 200 euro da spendere all’interno della Lidl stessa. È l’unica azienda che conteggia gli straordinari in minuti. «Se i lavoratori fanno pausa, poi la devono recuperare a fine turno», spiega la sindacalista Cobas Noamane Loubna. «Per l’azienda il lavoratore si riposa già sui muletti, fra un trasferimento e l’altro».
Dalle cooperative che ruotano intorno ai grandi marchi si scoprono situazioni estreme. Per esempio, l’appalto per le pulizie a Fedex: «Sono quasi tutte donne sudamericane e nigeriane. Vengono pagate 7,23 euro lordi all’ora. Non possono chiedere permessi, devono portarsi la candeggina da casa». Ed è anche qui, fra i subappalti della logistica e i marchi della grande distribuzione, che finiscono i lavoratori migranti per essere sfruttatati.