La Stampa, 1 giugno 2025
Intervista a Matteo Della Bordella
La sua certezza: «Destino e natura. Noi in mezzo e siamo impotenti». Matteo Della Bordella compirà 41 anni il 4 luglio. E forse sarà da qualche parte del mondo in montagna.
La sua vita è l’alpinismo. I suoi progetti non li svela. Non gli piacciono gli annunci, parla durante, soprattutto quando torna a casa. Ha arrampicato in tutto il mondo: sulle remote pareti della Groenlandia, raggiunte pagaiando in kayak sull’oceano per 300 chilometri, su quelle di granito della Patagonia, poi in Himalya e Karakorum. Senza mai dimenticare le Alpi.
Imprese, avventura, prime salite ovunque. Ora fa anche il «maestro» di alpinismo, anzi, di spedizioni per il Club alpino italiano. Guida l’«Eagle Team». È stato presidente dei Ragni di Lecco, ha vinto parecchi premi e per arrampicare ha lasciato la ricerca universitaria dopo essersi laureato in ingegneria gestionale.
Lo incontro a Saint-Vincent, con lui c’è Lio, 5 anni, il suo primogenito. Stanno partendo per una giornata di sci a Cervinia. Lio e la mamma Arianna sono stati assieme a lui in Patagonia con l’«Eagle Team».
Destino e natura, dice. Ingegnere fatalista?
«No più che realista. Direi che destino e natura sono logica nell’alpinismo. Nel senso che per quanto ti prepari sai che puoi andare incontro all’imponderabile. Un sasso che si stacca, una valanga, un cornicione di ghiaccio o neve che crollano».
Pericoli oggettivi, ma il destino?
«Ci si può anche non credere, ma ci sono episodi, situazioni che ti fanno pensare. Come quando si dice non era la mia ora»,
Le è capitato?
«Già. Nel 2012 mi sono chiesto “perché ha tenuto?”. E poi ho subito esclamato “meno male”. Era un perché riferito a un friend, l’ultimo di una fila di parecchi infilati in una fessura sull’inviolata parete Ovest della Torre Egger, in Patagonia. Ero con Matteo Bernasconi, il “Berna” per tutti. Sono caduto, ho trascinato nel vuoto anche lui e i friend di sicurezza si sono staccati uno a uno. Neanche il tempo di pensare alla morte che ci siamo fermati a penzoloni nel vuoto, attaccati a un solo frend. Direi, incredibile».
Lei ha fatto pareti difficile fin da giovane. Ha conciliato la sua passione con lo studio e il lavoro. Adesso deve farlo con la famiglia. È sposato e avete due figli, Ida, che ha un anno e 4 mesi e Lio…
«Questa è la sfida vera. Coniugare famiglia e alpinismo. È più complessa la scelta della salita che vorrei fare. Poi è più difficile partire, spiegare. Quando si hanno bimbi… Questione di responsabilità. È cambiato molto, ma quando ho deciso, quando sono riuscito a spiegare anche grazie ad Arianna, che arrampica pure lei, allora mi concentro su ciò che devo fare. E quando sono lì, nulla cambia rispetto a quando non ero padre, valuto le cose, il prima e il dopo. A casa devo tornare».
Lei ha cominciato ad arrampicare da bambino.
«Sì, con mio padre Fabio. Devo a lui la mia passione per l’alpinismo. A 8 anni sono salito in cima al Gran Paradiso, il mio primo Quattromila. Poi ferrate, arrampicate su roccia, in Grigna, Dolomiti e Monte Bianco sui satelliti del Tacul, come la via di Walter Bonatti al Grand Capucin».
Quando lei aveva già indossato il maglione rosso dei Ragni di Lecco ed era fra gli alpinisti di punta sua padre è morto in montagna.
«Avevo 23 anni. Le parlavo del destino… Quel giorno mio padre e il suo amico Attilio Farè non dovevano andare su quella parete dell’Antimedale, sopra Lecco. Non si sa che cosa sia successo, uno dei due deve essere scivolato nell’ultima parte della via, quella più esposta e ha trascinato l’altro. Cose che accadono nel modo più allucinante. Così come per Matteo Bernasconi finito sotto una valanga il 12 maggio del 2020. Anche lui non doveva andare lì. Era solo. Non c’è spiegazione. O come l’incidente nell’agosto di quell’anno sulle Grandes Jorasses. Ero con Matteo Pasquetto e Luca Moroni. Avevamo aperto una nuova via sulla parete Est e tornavamo sul versante Sud verso il rifugio Boccalatte. Matteo ed io stavamo parlando quando lui salta su un grosso sasso che si gira e gli fa perdere l’equilibrio. Precipita e muore. Pazzesco».
Dopo la morte di papà Fabio, sua madre Giovanna voleva che lei smettesse con l’alpinismo.
«Già. Non se ne dava una ragione, avrebbe voluto che facessi l’ingegnere. Lei non è mai andata in montagna. Ma tutto quello che sapevo allora e anche oggi, se sono arrivato fino a qui, lo devo a papà. Ciò che ho imparato da lui e ciò che è nella mia esperienza voglio trasmetterlo agli altri. Mamma ha accettato la mia scelta e ora è anche una nonna felice».
Ora l’ingegnere-alpinista fa anche la guida dell’Eagle Team del Cai. In Patagonia avete fatto grandi pareti.
«Sì, mi rende molto orgoglioso e sono sicuro che renderebbe orgoglioso anche mio padre. I miei genitori mi hanno insegnato che l’obiettivo è importante e che per raggiungerlo si deve lottare. Insegnamento che si deve consegnare ai giovani. Per me ragazzo c’era la scuola come impegno e il premio era la montagna. Chi ha lottato meno, fatica a focalizzarsi sul progetto da realizzare. Con il team abbiamo salito la parete Nord-Ovest del Cerro Piergiorgio di 900 metri. E ora ricominciamo le selezioni sulle Alpi».
Che cosa insegna soprattutto?
«Il senso del limite. Ho imparato che non ci si improvvisa, né si scherza con la montagna. C’è un confine, se lo superi quanto può accadere non è più nelle tue mani. Responsabilità e consapevolezza. Devi sempre sapere che cosa stai facendo. Alex Honnold che arrampica in free solo, senza chiodi e senza corda, dice che non va fiero della sua prima salita in questo stile sull’Half Dome, nello Yosemite, proprio perché non aveva idea di quello che stava facendo. Aveva superato il confine».