La Stampa, 1 giugno 2025
Intervista a Kim Rossi Stuart
Nel continuo confronto con sé stesso, Kim Rossi Stuart sembra aver scelto il ruolo dell’accusa. Auto-assolversi non è il suo mestiere, anzi, al contrario, se qualcosa che lo riguarda secondo lui, non va bene, il primo a farlo notare è lui: «Arrovellarmi intorno al narcisismo, cercare il consenso a ogni costo… tutta roba che non mi interessa e non mi da niente. Mi viene in mente una frase di Massimo Recalcati che mi piace moltissimo “la prima cosa che un insegnante dovrebbe fare nel momento in cui entra in un’aula, è farsi vedere mentre casca”. Per creare empatia, e poi per aprire la discussione». Con il personaggio del Principe di Salina nel Gattopardo di Netflix, Kim Rossi Stuart ha appena guadagnato il Nastro d’Argento del Sngci come «personaggio iconico dell’anno», e, dall’esperienza, ha tratto nuove considerazioni: «Per me la frase cruciale del libro è quella in cui il Principe dice “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni... Quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalli, le iene. E tutti quanti, gattopardi, sciacalli, e pecore, continueremo a crederci il sale della Terra”. È una riflessione esistenziale bellissima, ci ricorda che, alla fine, tutto diventa polvere».
Come definirebbe questa fase della sua vita?
«Sono un diesel, lento in tante cose, non ho quella furbizia veloce che hanno tanti. Ho capito adesso che, in un mondo così trasformato, bisogna cambiare sistema, e io lo sto facendo. Sto provando a lavorare in direzioni diverse, buttando tanti semini, sperando che poi qualcosa venga fuori. Cerco maggiore elasticità, anche come attore. In passato i confini di quel che ritenevo giusto erano molto ristretti, sto provando ad allargarli. Prima tutto doveva essere perfetto, al 100%, mi auguro di diventare meno perfezionista. Lo sono stato sempre, anche troppo».
Ha dato l’impressione di tenere al rigore. È così?
«Sì, il rigore mi piace molto, anche se, portato all’estremo, può diventare parente del perfezionismo. Quando lo vedo in qualcuno, dall’esterno, mi fa sempre una bella impressione, mi fa pensare a un’assunzione di responsabilità che genera qualcosa di buono per la società in cui viviamo».
Ha trasmesso anche ai figli la sua passione per il rigore?
«Cerco di farlo, ma con moderazione, rischio di diventare pesantuccio, e lo so. I figli hanno la loro identità e non devo soffocarli, bisogna lasciare spazio alla loro natura. Lo ricordo continuamente a me stesso».
In quest’epoca essere padri è più difficile che in passato?
«La figura paterna è depotenziata, indebolita, in crisi… Spesso vedo uomini imprigionati, non realizzati nei loro ruoli di padri e di mariti. Io lo sono, ma, anche in questo caso, con moderazione, mi reputo realizzato perché ho una famiglia che amo profondamente e ogni giorno mi regala tanta bellezza».
I social sono una presenza capace di influire su tutto, anche sui rapporti tra genitori e figli. Lei come li vive?
«Lo dico con una certa cautela, perché si viene subito apostrofati come reazionari e bigotti…ma se potessi avere una bacchetta magica per eliminare gran parte di questa roba, non avrei esitazioni. Lo farei pure con i cellulari. Sono impegnato quotidianamente nella battaglia per salvare i miei figli, soprattutto il più grande, da questa presenza totalizzante che li rende robot, impegnati a muoversi, anche per strada, guardando perennemente quel maledetto piccolo schermo. Una roba di cui non sappiamo ancora le conseguenze, una vera forma di dipendenza».
La sua visione della vita è più spirituale o più religiosa?
«La spiritualità è fondamentale, è una ricerca connaturata all’essere umano, una risorsa importante, l’unica che può aiutarci a non sguazzare nel fango in cui nasciamo e ci troviamo. Siamo pieni di pulsioni e istinti dettati dalla paura, la spiritualità è l’unica strada per sfuggire alle guerre, al dolore, all’incomunicabilità».
Crede in Dio?
«Ho scoperto che, all’interno degli universi religiosi, possono esserci tante spinte magnifiche, e credo che sia necessario sottolinearlo. Quanto alla fede, mi viene da citare Vittorio Gassman. Diceva sempre di invidiare molto chi veramente crede in Dio, è una cosa difficile, la penso come lui».
Qual è stato l’incontro fondamentale della sua vita?
«Quello con mia moglie. Mi ha stravolto la vita, mi ha obbligato a guardarmi dentro, fino in fondo, mi ha dato tre figli bellissimi e, consapevolmente o no, mi ha trasmesso il coraggio per fare un passo straordinario come quello di lasciarmi andare a una relazione così importante e poi ad essere padre. Anzi, direi che noi abbiamo iniziato proprio da lì».
L’immagine di bellissimo adorato dalle teen ager l’ha perseguitata per anni. Le è pesato?
«Ho dovuto condurre una lotta legittima per liberarmi da una serie di cliché che mi si volevano appioppare. Ho dovuto fare uno sforzo per uscire da quei limiti… Il Principe Romualdo di Fantaghirò era carino e divertente, ma, allora, per me, significava sentirmi chiuso in un ambito che non aveva niente a che fare con le mie aspirazioni. Era solo un divertissement».
Che rapporto ha con il tempo che passa?
«Ci ho pensato mentre giravo Il Gattopardo, anzi, in certi momenti, mi sono sentito risucchiato dal Principe di Salina e dalle sue emozioni sul tema… Nella vita reale posso dire, con molta concretezza, che, quando gioco a calcio, faccio i conti con tanti acciacchi che prima non avevo e adesso mi bloccano. E questo mi fa abbastanza incazzare… dal punto di vista atletico sono sempre stato a un buon livello, adesso molto meno… è difficile da mandar giù. Per il resto direi che si alternano momenti di paura dell’incognito, con altri di grande curiosità per quel che verrà dopo, e quindi di serenità e accettazione».
Ha rimpianti?
«Sono stato formattato per non averne. In me c’è qualcosa che, molto precocemente, mi ha spinto a non dare ascolto a quella voce che ti trascina verso il rammarico. Non è stato neanche uno sforzo, l’ho fatto talmente presto, è un automatismo. Penso che la tentazione del rimpianto sia sinonimo di depressione. Secondo me è sano dire a se stessi che, seppure può capitare di vivere una circostanza che ci ha sottratto qualcosa, si tratta, comunque, di un’occasione di crescita».
Che significato ha per lei essere attore e regista?
«Oggi più che mai il mio desiderio è non alimentare, attraverso il mestiere che faccio, il senso di rassegnazione, l’assenza di speranza. A 55 anni penso sia importante, soprattutto da autore, offrire al pubblico l’idea di una luce, di una possibile via d’uscita».