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 2025  giugno 01 Domenica calendario

Rubare le ore alla notte

C’è una foto di Arthur Miller in cui tiene sua figlia sulle ginocchia mentre stringe una penna fra le dita e scrive qualcosa su un foglio. Chi ha pubblicato l’immagine si è chiesto se immortalasse una consuetudine dello scrittore – scrivere con una poppante in braccio – oppure l’avesse tenuta giusto il tempo dello scatto, come probabilmente è stato. Miller è famoso per essere stato un padre poco compassionevole, come di molti si è detto e scritto (Manzoni, per esempio, pare fosse un pessimo padre) e certo non è poca la letteratura nata dal cattivo rapporto con le madri, donne cattive, sgradevoli, che hanno lasciato impronte profonde nella vita di scrittori e scrittrici che, come una maledizione, ne vengono perseguitati pure da anziani.
Ma c’è anche un’altra storia, meno raccontata, che riguarda le molte scrittrici che sono state perlopiù madri e casalinghe a tempo pieno e che solo nei ritagli di tempo hanno potuto liberare il loro genio creativo, rubando ore alla notte o ai rari momenti in cui i figli piccoli schiacciavano un pisolino. È ormai celeberrima la frase di Virginia Woolf secondo cui una scrittrice dovrebbe avere soldi e una stanza tutta per sé per scrivere. Ma se quella stanza è piena di bambini piccoli, allora per la scrittrice la faccenda si complica. C’è una storia dietro ogni storia scritta, non solo i luoghi e le condizioni in cui certi romanzi o racconti sono stati pensati e messi nero su bianco; serve anche riconoscere se quei luoghi e quelle condizioni sono stati in qualche modo influenzati dalla presenza di figli che reclamano il corpo della madre, i suoi capelli, il suo seno, le sue braccia. Perché è indubbio che la relazione fra madre e figli piccoli si giochi soprattutto sul piano fisico, un impasto di peli e odori, di calore e respiro che da una parte fa sentire i figli al sicuro, dall’altro amplifica l’amore materno. Ma in entrambi i casi, i soggetti possono essere destinati a imprevedibili frustrazioni: i figli che si vedono allontanare perché in quel momento mamma ha da fare, la madre che pur di non venir meno al proprio ruolo e non destinare i figli alla solitudine, deve mettere a tacere le sue voglie e rimandare l’incontro con la scrittura a un momento più propizio. Mi riferisco soprattutto a donne appartenenti alla middle o alla working class, perché nelle classi più agiate le donne scrittrici con figli potevano avere gli stessi aiuti e privilegi che quasi tutte noi, scrittrici e non, abbiamo ora: tate e, da qualche decennio, nidi e, ancor prima, asili. Le scrittrici, a differenza di lavoratrici di ogni epoca che svolgono il proprio lavoro fuori casa, sono sempre state costrette a dividere non solo il tempo, ma anche lo spazio perché sappiamo che è e impossibile scrivere un paragrafo se nei paraggi c’è un bambino che chiede il tuo corpo o le tue attenzioni.
Questi bambini che riempiono la vita e le giornate, spesso nei libri scompaiono. Totalizzanti e forse anche un po’ tiranni, si prendono così tanto che nei romanzi, nei racconti e nelle poesie scritti da quelle madri che fino a un paio di ore prima hanno giocato con loro, non esistono più. Ecco la stanza tutta per sé: la pagina scritta. Lì la scrittrice è sola e può dimenticare di essere madre – pure se il suo corpo sa, pure se il suo cuore sa. Penso a Shirley Jackson, madre di quattro figli, che un giorno all’ospedale quando l’infermiere per compilare un modulo le chiese: «Professione?». «Scrittrice» rispose lei, lui la soppesò per un po’, poi disse: «Meglio che scriviamo semplicemente casalinga». Una donna che si eclissava dietro le incombenze quotidiane e chissà se era mentre rifaceva i letti che le storie venivano a bussare e quanto tempo doveva tenerle dentro, farle macerare, prima che potesse essere libera di sedersi e scrivere. Constatare, pure, che è forse grazie a quel conservare le parole per così tanto tempo che poi le dici meglio, le scrivi meglio. Esistere scrivendo, trovare una porta magica da cui potersi affacciare, vedere lo splendido paesaggio nascosto dietro, un paesaggio che nel caso di Jackson celava paure e spaventi. Regina indiscussa del perturbante, maestra nel racconto, rarissimo caso di autrice capace di farti sentire un brivido dietro la schiena ingannandoti sia solletico, immaginava mondi gotici impossibili da estirpare dalla fantasia di qualunque lettore vi capiti dentro. Due ore al giorno: era questo il tempo che Shirley Jackson poteva dedicare alla scrittura, poi tornava alla vita di sempre – una vita pure amata, pulsante, pare sia stata una madre divertentissima e le piaceva stare con i suoi bambini. Anche Sylvia Plath amava giocare con i suoi figli ed è a loro che pensa un attimo prima di suicidarsi, sigillando la porta della cucina perché il gas che la ucciderà non arrivi fino alle camere dove stanno dormendo Frieda e Nicholas, di tre e un anno. Plath, dopo il 1961, ce li fa sentire i suoi figli, le sue poesie lasciano i boschi e il dolore acerbo, appuntito e gelido della giovinezza senza prole, e trovano una dimensione casalinga, colma di vapori, dove la natura viene domata e i bambini si fanno sentire, piangono coi volti rossastri e «Intanto c’è puzzo di grasso, di cacca di neonato» e la poetessa ammette «Ora taccio, piena d’odio/fino al collo,/mi soffoca./Non apro bocca./ Prendo su le patate dure come vestiti buoni, prendo su i bambini, prendo su i gatti malati». (Lesbo, 1962). Il ’62 però è anche l’anno in cui scrive la miracolosa Lady Lazarus, come prova del fatto che sì, i figli ti tolgono tempo e spazio, ma inconsapevolmente iniettano una potente magia che è un impasto di ormoni e rabbia, di felicità e deprivazione del sonno, in grado di potenziare l’energia erotica, intesa come energia del creare. Questo non significa, naturalmente, che chi non ha figli non possa far uso di questo particolare incantesimo, perché altrimenti non esisterebbe metà della letteratura, metà dell’arte, metà di niente. L’amore, per esempio, è un altro incantesimo eccezionale che offre una spinta propulsiva, oppure l’ambizione.
Nella raccolta di racconti di Lucia Berlin pubblicata da poco da Bollati Boringhieri, Una nuova vita, vediamo in copertina la scrittrice sorridente e smanicata, dentro quello che sembra essere un giardino. Si tratta del particolare di una foto che nella versione originale ritrae Berlin con il figlio Jeff, che è il curatore di questo libro che raccoglie i racconti inediti della madre. Un bambino nudo con pannolino in braccio a una madre sorridente e stanca: un ritratto di famiglia che in tutto ricorda le innumerevoli Madonne con bambino dove la madre guarda sempre dritto davanti a sé, con uno sguardo ora di gioia, ora di apprensione, mentre viene ghermita, avvinghiata, desiderata dal figlio. La donna, nella copertina del suo libro, è solo scrittrice e c’è quella storia nascosta, la storia della scrittrice madre che chissà quanto tempo avrà impiegato a mettere il pannolino al piccolo mentre quello lanciava gridolini provando a scappare. Ma questo la copertina non lo dice, c’è solo Lucia Berlin felice e stanca, non suo figlio, quel bambino ora adulto che fa pubblicare gli inediti postumi, prendendosi letteralmente cura di lei come lei si è presa cura di lui. È un destino molto comune a figli e figlie di scrittrici che, nonostante le fragilità, le nevrosi, la povertà, in gioventù si sono prese cura dei loro bambini piccoli, non li hanno lasciati, li hanno tenuti vicini a sé provando al contempo a non perdere quell’altra cosa necessaria all’esistenza: la letteratura, lo scrivere. Anche il figlio di Shirley Jackson, Laurance Jackson Hyman, si è occupato della produzione letteraria di sua madre, raccogliendo scritti inediti raccolti in Paranoia (Adelphi), riconoscendole la professione di scrittrice che quell’infermiere le aveva negato. E Frieda Hughes da anni si batte perché il nome di sua madre non venga vilipeso, tutelandone la buona memoria. È questo che si intende per restituire amore, ed è questa la dolcezza che filtra dalle pagine, la dolcezza di chi sa che qualche piccola cosa va sacrificata tanto nella maternità quanto nella scrittura, per non far torto a nessuno, ma soprattutto non far torto a sé stesse. Una dolcezza che parla a tutte e che si legge benissimo in questo verso di Adrienne Rich, poetessa e saggista femminista: So che stai leggendo questa poesia in cucina,/ mentre riscaldi il latte, con un bambino che ti piange sulla spalla e un libro in mano,/perché la vita è breve e anche tu hai sete.