Il Messaggero, 31 maggio 2025
Alessandro Gassmann: «Sono stato un bullo che odiava i genitori, mio padre era severissimo e mi ha messo in riga. A scuola avevo paura di andarci»
Dieci chili di muscoli in più, tre mesi e mezzo in palestra, allenamento fitto per somigliare, su grande schermo, all’antieroe del romanzo di Paola Barbato Mani nude, al cinema dal 5 giugno per la regia di Mauro Mancini. «Dovevo indossare il corpo come fosse una maschera. Il mio obiettivo era incutere timore», spiega Alessandro Gassmann, 60 anni, calato nella parte del brutale mentore Minuto in un film “alla Fight Club” (il cult ultraviolento di David Fincher, del 1999). Ambientato in un distopico circuito di lotte mortali clandestine, Mani nude è la storia dell’incontro forzato tra Minuto e Davide (il bravissimo Francesco Gheghi, 21 anni) in un mondo che non conosce altro linguaggio che quello della violenza. «Sì, ma non è un film violento».
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Ma non era il “Fight Club” italiano?
«In comune con il film di Fincher c’è il mondo dei combattimenti segreti e una certa spettacolarità, anche nel suono (colonna sonora di Dardust, ndr). Ma questo non è solo un film di genere. È un film d’autore».
E quindi?
«E quindi ha anche un senso profondo. Non si limita a mostrare la violenza, ma cerca risposte e vie di fuga. Ci dice che nessuno nasce cattivo: può però nascere in cattività, cioè crescere in una situazione che non gli offre altre alternative. Tutti abbiamo un lato oscuro, sta a noi e ai nostri genitori evitare che esploda».
Anche lei?
«Io avuto genitori molto severi. Ma non ero come mio figlio (il cantante e attore Leo Gassmann, ndr), che è dolce e gentile. Ero irrequieto e anche aggressivo. Mi sentivo un diverso».
Proprio lei? Il figlio di Vittorio Gassman?
«Appunto. Ero il “figlio di”, ero il più alto della classe, mi sentivo fuori posto. Avere avuto un’educazione ferrea è stato fondamentale. E l’ho patita: sono arrivato a odiarli, i miei genitori. Ma adesso li ringrazio. Mi hanno insegnato una cosa fondamentale».
Quale?
«I genitori non devono essere amici dei figli».
Ma lei, le botte, le ha date o le ha prese?
«Le ho date. Ero una specie di bullo. Sono rinsavito grazie alla guida di mio padre. E alle sue manone».
Un mentore alla Minuto, lei ce l’ha avuto?
«Posso citare solo i miei genitori. Non ho nemmeno avuto un professore come quelli che interpreto in tv (Un professore, la fiction di Rai1: prevista la terza stagione, ndr). La mia esperienza a scuola è stata coercitiva. Avevo paura di andarci».
Il film esce in un momento critico per il cinema: il settore è in difficoltà e la protesta contro le istituzioni monta. Perché non c’è anche la sua firma tra le centinaia in calce all’appello dei suoi colleghi al Ministro Giuli ?
«Perché sono d’accordo sul contenuto, ma non sul metodo di quell’appello. Penso che in questo momento non serva uno scontro muro contro muro. Dobbiamo cercare diplomaticamente di venire a capo della questione. Il settore è in sofferenza, c’è gente a casa da mesi. Che deve tornare a lavorare».
Come giudica l’incontro del 6 giugno programmato con il Ministro Giuli e alcuni rappresentanti del settore (i portavoce dei firmatari sono Beppe Fiorello e Claudio Santamaria, ndr)?
«Fondamentale. Per tutti».
Voleva ritirare il nome di suo padre dal teatro di Gallarate che ha ospitato un convegno dell’ultradestra. E poi?
«Il Sindaco ha detto che d’ora in poi rifletterà di più su enti e persone cui affittare il teatro. Sono onorato che sia stato dedicato a papà e spero di tornarci».
E se volessero organizzare una manifestazione che non è di suo gradimento?
«Se vogliono continuare a utilizzarlo per manifestazioni xenofobe possono farlo, ma in un teatro con un altro nome».
Per esempio quello di...
«Giorgio Albertazzi. Attore più vicino a certe posizioni. Ma mi scusi: di un altro livello, rispetto a mio padre».