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 2025  maggio 31 Sabato calendario

Intervista a Mario Martone

Stati d’animo: «Ho avuto un’infanzia felice in cui osservavo ciò che mi circondava da un luogo appartato e molto intimo, il mio mondo. Ero molto amato, ma sapevo stare per conto mio, anche in silenzio, perché ho sempre considerato la vitalità della malinconia come un’appendice della curiosità». Mario Martone ha sessantacinque anni. Ha girato alcuni film, fondato compagnie teatrali, vinto molti premi che invece di placarne il desiderio di scoperta, lo hanno convinto della necessità di indagare ancora. In Fuori, accolto a Cannes in concorso e ora in sala, ha esplorato l’estate del 1980 e i tormenti di una scrittrice, Goliarda Sapienza, passata dal carcere per dare senso, una volta per tutte, alla parola libertà.
Lei quando ha incontrato per la prima volta la sua libertà?
«Nel 1973. Eravamo stati in vacanza in Cilento e una volta tornati in città ci eravamo trovati di fronte a un’epidemia di colera che aveva costretto la popolazione alla profilassi e lasciato noi ragazzi, con le scuole chiuse, davanti a un latifondo pieno di tempo libero e possibilità».
Come sfruttò quel tempo libero?
«Mi presi il tempo di conoscere la città. Chi l’aveva mai vista, in fondo, Napoli? Per un mese camminai in lungo e in largo e capii tante cose».
Se pensa agli anni ’70 cosa le viene in mente?
«La febbre di cambiamento che si respirava ovunque. I Settanta sono spesso descritti come un decennio cupo, ma secondo me hanno rappresentato un periodo straordinario di sperimentazione e di scoperta. Hanno avuto il loro tragico contraltare? Senz’altro, ma sono stati anche gli anni in cui nella società, le spinte libertarie dei 60, hanno permesso di fare dei giganteschi passi in avanti nell’ambito di diritti che credevamo raggiunti per sempre e che invece, come abbiamo imparato in seguito, non vanno soltanto conquistati, ma difesi ogni giorno».
Che età è quella acerba?
«L’adolescenza per me è stata inquieta. Faticavo a studiare, guardavo fuori dalla finestra, perdevo tempo. Iniziai a prendere pessimi voti facendo preoccupare mia madre e al primo liceo venni anche rimandato in greco. Avevo problemi con la grammatica e con la sintassi, ma il professore di greco, riamato, mi amava moltissimo. Che andassi male in greco è un paradosso: in seguito ho messo in scena diverse tragedie greche».
Lei studiò al Liceo Umberto: la scuola in cui si formarono Raffaele La Capria e Giorgio Napolitano.
«E Mario Scarpetta, Francesco Clemente, tantissimi altri. La scuola era un contenitore di tante istanze diverse, non di rado in contraddizione tra loro».
Le piace la contraddizione?
«L’ho vissuta in famiglia, fin da bambino. Mia madre, una donna colta, veniva da una famiglia genovese di ascendenze alto borghesi. Mio padre diventò artigiano quando suo padre gli disse: “molla i libri e vai a lavorare in una pellicceria”. Mia madre e mio padre si incontrarono in quel luogo mitologico che è stata l’Italia del dopoguerra e si sono amati nonostante la diversità. C’era il lato materno, più sognante e c’era quello paterno, più pragmatico».
Napoli e Genova sono due città che si somigliano?
«Si somigliano molto e in qualche modo devo qualcosa ad entrambe. Mi sento un napoletano obliquo: un uomo pieno di amore per la sua città, ma non del tutto allineato con la napoletanità in senso stretto».
Nella scena iniziale di “Morte di un matematico napoletano”, il suo primo film, al protagonista chiedono subito i documenti.
«Si chiamava Renato Caccioppoli e la sua storia mi aveva sempre affascinato anche perché raccontava la parabola di uno straniero in patria, di un napoletano atipico, come mi sento e mi sono sempre sentito anche io».
Chi la instradò all’amore per le immagini?
«Mio padre, fotografo dilettante, mi fece vedere per la prima volta una camera oscura e la mia propensione a giocare con la fantasia si arricchì di suggestioni nuove. Poi conobbi il teatro d’avanguardia e in quel calderone in cui palcoscenico, musica e cinema si confondevano permettendo di sperimentare liberamente iniziai a creare i miei piccoli mondi. Prendevo in prestito il proiettore delle diapositive o il super 8 da mio padre e li utilizzavo per dare forma alle immagini con le installazioni. Era più arte contemporanea che vera e propria rappresentazione: per mettere in scena dei testi animati dalla voce e dal movimento degli attori c’è voluto tempo».
La Roma che mette in scena in “Fuori”, quella città in bilico tra gli anni ’70 e l’alba degli anni ’80 è frutto della sola fantasia?
«No, è figlia anche delle mie esperienze. Roma è la città in cui vivo, ma è anche la città nella quale mi fiondavo non appena era possibile perché era lì che il teatro d’avanguardia, con Giancarlo Nanni, Manuela Kustermann, Leo De Berardinis, Carmelo Bene, Simone Carella e tanti altri, in luoghi come il Beat 72, dava vita a performance straordinarie. Con un gruppetto di amici prendevamo il treno da Napoli, sbarcavamo a Roma e viaggiavamo di notte per tornare sui banchi di scuola la mattina dopo. Un paio di volte, per la stanchezza, mi sono risvegliato in Calabria».
Che ricordi ha della Roma di allora?
«Una città stupenda, sospesa, irreale. A Roma avevo degli zii, una volta ottenuta la patente prendevo la macchina in prestito e mi perdevo per ore a girarla in lungo e in largo. La sola idea di tornare a quegli anni girando una sorta di road movie tra memoria e passato, ha acceso memoria e fantasia».
Qual è il senso più profondo del suo lavoro?
«La condivisione del gioco. Giocavo da bambino e continuo a farlo anche adesso. Il gioco, nel mio mestiere, è fondamentale. Così come lo è il rapporto con gli altri. Se sei un autore, non lo sei in solitudine. Ho sempre lavorato in gruppo e ho sempre cercato, che fondassi una compagnia teatrale, dirigessi un’opera lirica o girassi un film, di far attecchire le fondamenta di uno spirito collettivo perché credo che il lavoro del regista sia proprio questo: la capacità di creare un certo numero di forze che muovano in una stessa direzione, di disegnare i confini di un campo in cui si possano incanalare le energie creative rispettando il contributo di chiunque. Prenda Fellini. Era un genio, ma senza Nino Rota, Ennio Flaiano o Danilo Donati sarebbe stato lo stesso Fellini?».
Lei fa un mestiere che è il terreno di adozione della fantasia.
«È vero. Ed è doloroso oggi vivere in un mondo frenato da un mostruoso senso di realismo. È come se fossimo tutti ingabbiati in una prospettiva in cui il mondo è immutabile e non si possa immaginare niente di diverso da quel che ci viene proposto quotidianamente».
Da questa sensazione di immobilità è tratta a fondo anche la sinistra?
«Sicuramente. Non partecipo al tiro al bersaglio nei confronti della sinistra perché obiettivamente definire i confini di ciò che significa essere di sinistra nel 2025 è un’impresa che toglie il fiato e per capire che il capitalismo ha stravinto non c’era bisogno del ritorno di Trump. Ma la sinistra, un tempo, aveva fantasia e sapeva immaginare il futuro proprio come lo immaginavamo noi che leggevamo avidamente i libri di fantascienza. Ora quel futuro è arrivato, lo stiamo vivendo, ma è come se non avessimo gli strumenti per interpretarlo».
Perché secondo lei?
«Perché, anche se parliamo di intelligenza artificiale, viviamo in un presente bloccato, immobile e per certi versi soffocante. Orwell, in 1984, aveva capito già tutto. Sono arrivate le innovazioni tecnologiche, è arrivato il controllo, è arrivato qualcosa che non siamo riusciti a dominare, a guidare, a controllare. Se penso che il mio amico Augusto, in quell’estate del 73, mi diceva “come sarebbe bello avere New York New York a casa, possedere il film, rivederlo” anni prima che si facessero strada le vhs e i dvd provare un senso di vertigine è inevitabile».
Sulla complessità di immaginare il cambiamento si esprimeva anche il sindaco da lei messo in scena in un episodio de i “Vesuviani”. Con la fascia tricolore al collo, diceva parole profetiche: «Sapessi come è difficile cambiare questa città».
«A quel mediometraggio, La salita, con un grande Toni Servillo, sono molto affezionato. Era un film pasoliniano e malinconico. Allora venne attaccato politicamente, oggi è un cult».
I “Vesuviani” andò in concorso a Venezia e venne brutalmente fischiato.
«Fu un’ecatombe! Quella contestazione, violenta, era figlia di un equivoco. Il film venne preso per un manifesto, ma non lo era».
Cos’era?
«Io, Corsicato, De Lillo, Incerti e Capuano eravamo cinque registi diversissimi tra loro che avevano voglia di fare un film a episodi come si faceva negli anni ’60. Niente di più e niente di meno, venne preso come la bandiera del nuovo cinema napoletano e la reazione del pubblico fu feroce».
Lei ci rimase male?
«Ma no, ero felice di aver fatto il mio episodio. I festival passano, i film restano».
È dell’idea che nel cinema le botte si danno e si prendono?
«Sono dell’idea che le cose vanno come vanno e ogni film fa storia a sé. Ne ho fatti undici, ognuno di loro è un pezzo unico».
Cosa le interessa veramente quando decide di iniziare un progetto?
«Faccio tabula rasa, non parto mai da ciò che ho fatto prima. Ho la visione del film e mi metto in cammino per renderla reale. Cerco strade nuove».
Accade perché si annoia con sé stesso?
«Beh, annoiarsi con sé stessi è un rischio sempre presente. Per me come per tutti. Noi siamo la nostra stessa prigione ed è sempre bello quando riusciamo a uscire all’aria aperta, fuori da noi stessi. Un film è un viaggio in cui ancor prima di iniziare sei pronto a fare un numero innumerevole di incontri».
È un viaggio lieto?
«Per me lietissimo. Se scrivo, sto su un set o preparo uno spettacolo sono felice. Tutto il resto, la vita quotidiana, è decisamente più faticosa, anche se vivere mi piace. Mi piace godere dei piccoli piaceri, dei momenti di ozio, degli istanti in cui il lavoro non è più di un’eco lontana».
Nel “Decameron” Pasolini dice: “Perché realizzare un’opera d’arte quando è solo così bello sognarla?”. Aveva ragione?
«Se il tuo sogno viene calpestato per ragioni magari commerciali sicuramente sì. Ci sono molte cose che possono rendere la vita di un regista faticosa a allora penso che bisogna trovare la strategia per opporsi alle brutture, per superare gli ostacoli e far parlare l’opera. Per poter dire, alla fine: “questo è il film che avevo sognato, che vi piaccia o meno”. Ogni film che ho fatto, in fondo, è stato il risultato di un processo simile».
Ha sognato spesso?
«Tutte le volte che mi sono imbarcato in un’avventura in cui credevo».
Il sogno a cui è più affezionato? «Ce ne sono tantissimi, ma inventare dal nulla, da un ex fabbrica di detersivi abbandonata, la Mira-Lanza, quello che poi è diventato il Teatro India è stato un sogno ad occhi aperti».
Come andò?
«Mi arrivò un’inattesa telefonata di Gianni Borgna, all’epoca assessore alla cultura del comune di Roma. Mi proponeva la direzione del Teatro Stabile e io gli dissi che l’avrei fatto solo se fosse stato possibile creare uno spazio alternativo all’Argentina per dare aria e luoghi fruibili al teatro contemporaneo. Mi raccomandò silenzio “non lo deve sapere nessuno” e ci demmo un appuntamento carbonaro al quartiere Ostiense. Il luogo era una giungla, c’era un edificio malmesso che stava per essere abbattuto e intorno liane, rovi e cespugli. Finii per accettare il mandato e ci mettemmo a lavorare. C’era scetticismo, i giornali scrivevano “non ce la faranno mai"».
Il teatro fu inaugurato.
«Furono due anni vissuti pericolosamente. Inaugurammo con l’Amleto messo in scena da Carlo Cecchi. Il giorno prima di aprire i battenti più che un teatro sembrava un cantiere».
Come è nato “Fuori”, il suo ultimo film?
«Con Ippolita Di Maio, la mia compagna di vita e di giochi, abbiamo iniziato a pensare al film 5 anni fa. Ci aveva colpito la figura di Goliarda Sapienza e ne parlammo con i produttori Nicola Giuliano e Viola Prestieri per fare un film biografico su di lei con Valeria Golino. Scoprimmo che una settimana prima Valeria aveva preso i diritti dell’Arte della gioia per farne una serie!».
Per ragioni di sintesi diremo che “Fuori” racconta l’esperienza carceraria di Goliarda Sapienza, scrittrice incompresa, tormentata e in grande difficoltà economica tradotta a Rebibbia per un furto di gioielli. L’esperienza del carcere la cambierà per sempre.
«L’idea di girare a Roma, in agosto, la storia di un’amicizia irrituale mi piaceva molto e altrettanto amavo l’idea di fissare quella Roma deserta con delle immagini che raccontassero tanto l’incontro tra Goliarda e le sue nuove amiche tanto quel luogo mi stimolava. Oggi non più ma una volta le città si svuotavano d’estate, ancora ricordo quando mi capitò di vedere Via Panisperna senza macchine parcheggiate, una visione d’incanto».
Chi è stata secondo lei Goliarda Sapienza?
«Oggi è un’icona femminista- anche se lei diffidava degli ismi- ma direi che è stata soprattutto una donna libera. Una che diceva: “le donne sono sempre state il mio partito” ma anche “sempre lotterò per l’amicizia tra l’uomo e la donna”. Una ribelle che aveva capito che la rivolta, quando non è uno slogan, non può che essere prima di tutto interiore. Una donna che non trovava il successo nei salotti perché la sola ipotesi di essere conforme a qualcosa la intristiva».
Senza il successo che vita sarebbe stata quella di Mario Martone.
«Più che domandarmi cosa avrei fatto se nessuno mi avesse riconosciuto artisticamente, mi chiedo cosa sarebbe stata la mia vita senza cazzimma».
Lo traduciamo con carattere forte?
«Ho sempre lottato e continuo a lottare, però ho cercato di fare in modo che le cicatrici delle mie battaglie non mi appesantissero il corpo. Qualcuno in passato mi ha chiuso la porta in faccia ma non ho mai portato rancore perché il rancore è il più inutile e il più faticoso dei sentimenti. Sono un regista fortunato e sono un uomo fortunato. So benissimo che ci sono tanti colleghi che fanno una fatica enorme, quindi l’ultima cosa che farò è lagnarmi».
Dicono che sul set lei sia severo.
«Io credo di essere adorabile! Ma ho in mente che cosa voglio e cerco di ottenerlo».
Quanto è cambiato Mario Martone dagli inizi ad oggi?
«Alla fin fine mi sembra essere sempre tale e quale. Però sa qual è la verità?».
Quale?
«Che giudicarsi da soli o è troppo difficile o è troppo comodo».