Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  giugno 01 Domenica calendario

Le trappole da fronte del palco

Per iniziare, un indovinello: «Il noto scrittore, salito sul palco, si ritrovò solo. Domandò: dov’è quello con cui devo dialogare?». L’ho rivolto ai partecipanti ai corsi per conversatore organizzati dal Festivaletteratura di Mantova. Potrei rivolgerlo a tutti quelli che, nella stagione dei festival che si apre, affiancheranno un autore. Nessuno hai mai azzeccato la risposta e forse nessuno l’azzeccherebbe. Dov’è, dunque?
Il conversatore è nella punteggiatura. Svolge la stessa funzione di punti interrogativi, virgole, punti fermi. Chiede. Interrompe brevemente. Blocca quando il discorso va per le lunghe, ma non sostituisce mai le sue parole a quelle del protagonista. Che, come molti dimenticano, è l’autore, non chi lo intervista. Su dozzine di palchi, a fianco a chi ha scritto libri appariranno altri scrittori, giornalisti, critici, lettori specializzati, librai, volontari addestrati per la circostanza. Questo è una piccola raccolta di suggerimenti che, come quelli della famosa canzone Everybody’s Free ( to Wear Sunscreen), «non ha basi più affidabili della mia tortuosa esperienza» (come intervistato, intervistatore,spettatore). Il primo è: ricordare che il conversatore è la spalla. Esordisce brevemente introducendo l’ospite e va con la prima domanda. Purtroppo capitano preamboli tendenti all’infinito. In qualche caso è toccato a qualcuno dal pubblico alzare la voce per far notare che aveva (o no) pagato il biglietto per l’autore venuto dalle lontane Americhe e non per la gloria della Bassa Padana. C’è chi ha passato minuti a fare notare analogie e coincidenze tra la propria opera e quella di un perplesso convitato. E chi ha iniziato rimproverando i rappresentanti della casa editrice ( sempre seduti in prima fila come ansiose babysitter) del ritardato o mancato invio dei libri necessari per l’incontro.
Forse un alibi per l’insufficiente preparazione. Troppe volte infatti ci si accorge che il conversatore non ha affatto letto il romanzo o il saggio di cui esiste una colonna di copie in attesa di essere firmate e avanza poggiandosi su terze di copertina, considerazioni rubate a recensioni o interviste cercate su Google. Dovendosi trattare poi nei casi migliori ( e sempre più scarsi) di un dialogo con un autore e non della presentazione di un libro, fa tristezza capire che non ha mai letto i precedenti. Allora perché è lì, perché ha accettato? Il conversatore ideale deve avere una preparazione sull’intervistato. Più altre tre doti:1) curiosità ( l’autore deve interessargli); 2) attenzione ( ascolta le risposte ed è pronto a formulare domande conseguenti, a scapito di quelle preparate); 3) educazione (mai, mai si sovrappone). È un servitore di due padroni: il primo è l’intervistato, il secondo è il pubblico. Di quest’ultimo è il rappresentante, non per elezione, ma per nomina. L’ha ottenuta perché si presume sia informato, più dei presenti (alcuni dei quali non lo accetteranno mai e aspettano solo il momento di fare un intervento che è in realtà un editoriale di alcuni intollerabili minuti).
Sono convinto che la conversazione ideale risponda alla “teoria dello scompartimento”. Chi assiste avrà l’impressione di trovarsi su un treno, seduto di fronte a due persone, di cui una famosa, avendo il privilegio di ascoltare una chiacchierata in cui quella meno famosa stimola l’altra a spiegare e rivelare. Senza pungolo, senza malizia. Il dialogo letterario non è un’intervista giornalistica, non cerca un titolo d’attualità. Di fronte a un romanziere affermato non si può cominciare, e insistere, con una domanda di politica internazionale. Se anche ha espresso un’opinione forte su Gaza o Kiev, toccherà a lui ribadirla, o portare lì il discorso rendendo inevitabile il quesito. È accaduto che l’opposto abbia irritato al punto di far alzare e lasciare la scena. Se a volte l’ironia non funziona, l’esibita complicità è un peccato non veniale. Ci sono conversatori che annuiscono per tutto il tempo della risposta, come se già sapessero o tutto condividessero. Ancor più fastidioso se l’autore parla in una lingua straniera («ehi, notate, non avrei neppure bisogno dell’interprete, io»).
Autore e pubblico dovrebbero sentirsi parte di un live, irripetibile. Il conversatore dovrebbe far sentire il primo importante e il secondo partecipe. Se l’autore si contraddice, è inevitabile farlo notare, ma senza la matita rossa: non è un duello. Se commette uno svarione, meglio sorvolare, magari guardando con la coda dell’occhio la platea e far capire a chi ha capito che va bene così, non è il caso di infierire. Può capitare l’autore svogliato, che ha accettato l’invito soltanto per la cucina locale. O quello indisposto perché quella cucina gli ha fatto male. Quello che a domanda non risponde: svicola. La gentilezza in questi casi è il miglior rimedio, fino a metà della serata, poi ognuno diventa responsabile per le proprie (cattive) azioni.
Ci sono alcuni errori fondamentali da non commettere. Presentare un autore che non piace, umanamente o per quel che scrive. Presentarne uno che piace troppo. Portarsi laclaque da casa. Voler fare una citazione, non trovarla perché il post-it è caduto e creare un vuoto. Tenersi l’ultima parola, passi, ma non trasformarla nell’ultima concione.
Ci sono ancora due momenti da affrontare. Il primo è quello delle domande del pubblico. Un consiglio: abolirle. Non si può? Attenzione. Premettere: massimo venti secondi e punto interrogativo alla fine. Non basterà. All’autore bisognerebbe però far leggere questa riflessione di Teju Cole (contenuta inTremore): «Mi sono sentito in colpa per l’asimmetria del formato. Dopotutto il pubblico era venuto a sentire me e l’uomo che aveva fatto la domanda era già in svantaggio. Non gli è stato concesso diritto di replica. La mia risposta, per quanto accurata, aveva anche un’aura di spettacolarità: è stata così immediata, concisa e concreta che il pubblico ha applaudito, come fosse stato un combattimento conclusosi con la mia vittoria trionfale».
È finita, ma non è finita. Il conversatore deve ancora farsi da parte, anche fisicamente, lasciando il palco all’autore. Al firmacopie, anche se entrambi avessero un libro da poco pubblicato, va soltanto uno. Anche a questo ruolo si applica una similitudine che Francesco Piccolo ha usato per lo sceneggiatore: «È come la sarta della sposa: prima del matrimonio tutti la cercano, poi manco l’invitano al banchetto nuziale». Giusto così, allontanarsi canticchiando con Lucio Battisti, testo di Pasquale Panella: «L’artista non sono io, sono il suo fumista».