Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  giugno 01 Domenica calendario

La globalizzazione delle orchestre

Si elevano dazi, la globalizzazione scricchiola, la pace non può più essere data per scontata. Così scatta la voglia di chiudersi, di rifugiarsi dentro i confini. E, a sorpresa, chi continua a viaggiare, a muoversi tra i continenti, sono i musicisti, una categoria tradizionalmente debole ma forse proprio per questo finora risparmiata dalla drammaticità della situazione – in genere chi vive di musica non sposta il Pil, non dà fastidio, è abituato a far buon viso a cattivo gioco.
Ma che cosa ne pensano i protagonisti? Ne abbiamo parlato con tre direttori italiani, ospiti abituali delle maggiori istituzioni musicali del mondo e responsabili di orchestre di diversi Paesi. Sono Riccardo Frizza, direttore musicale e artistico del Festival Donizetti di Bergamo e direttore principale dell’orchestra della Radio Nazionale ungherese, a Budapest; Gianandrea Noseda, appena riconfermato direttore principale della National Symphony Orchestra, a Washington, oltre che direttore ospite principale della London Symphony e direttore musicale dell’Opera di Zurigo; e Speranza Scappucci, designata direttrice principale ospite al Covent Garden di Londra dopo essere stata a lungo a capo dell’Opéra Royal de Wallonie, a Liegi.
Le orchestre, da tempo, sono contesti nei quali si riuniscono musicisti provenienti da luoghi diversi. Ben prima che si diffondesse la globalizzazione, era normale che sedessero fianco a fianco professionisti con lingue, culture, tradizioni differenti, anche perché la natura del linguaggio musicale lo consente. Quando è cominciato questo fenomeno?
GIANANDREA NOSEDA – I musicisti sono da sempre viaggiatori, probabilmente per la curiosità di conoscere nuove realtà, di incontrare stimoli diversi, per il desiderio di scambiare esperienze personali.
In passato le possibilità di spostamento erano più limitate, va da sé; però, se pensiamo che già nella metà del XIX secolo Verdi e Berlioz arrivarono serenamente in Russia e che Ciajkovskij nel 1891 era presente ai concerti inaugurali della Carnegie Hall di New York, ci rendiamo conto di quanto questa attitudine al movimento fosse già radicata. Poi, certo, lo sviluppo tecnologico del XX secolo ha reso i viaggi più accessibili e a volte purtroppo necessari: penso a quelli legati all’esodo di molti compositori europei verso l’America durante le due guerre mondiali.
SPERANZA SCAPPUCCI – È vero: da sempre le orchestre sono state formate da musicisti provenienti da tutto il mondo perche la musica è un linguaggio universale. È una delle nostre fortune.
RICCARDO FRIZZA – Sì, e già nell’Ottocento, soprattutto negli Stati Uniti, le orchestre erano composte da musicisti di diverse nazionalità. Anche in Europa la mobilità dei musicisti ha favorito presto un certo grado di internazionalizzazione.
Mentre in Italia...?
RICCARDO FRIZZA – Da noi per lungo tempo le orchestre sono rimaste più legate al contesto locale, sia per tradizione sia per una struttura musicale molto radicata sul territorio.
E si è assistito a un’accelerazione?
RICCARDO FRIZZA – Beh, la facilità di spostamento e la crescita della formazione musicale in aree come l’Asia negli ultimi anni hanno accelerato questo processo ovunque, rendendo la presenza di musicisti stranieri nelle orchestre una cosa normale e rafforzando il ruolo della musica come luogo privilegiato di incontro tra culture. Hanno ragione i miei colleghi: siamo fortunati.
GIANANDREA NOSEDA – Sì, oggi la situazione è estremamente fluida: i musicisti scelgono dove andare in base alle opportunità professionali, certo, ma anche ai sogni che vogliono inseguire, realizzare.
SPERANZA SCAPPUCCI – C’è poi un dato tecnico-giuridico: con l’apertura delle frontiere in Europa agli inizi del nuovo secolo si è facilitato lo spostamento tra un Paese e l’altro, così da poter assumere in un’orchestra musicisti da tutte le nazioni. Credo che la stessa cosa sia successa negli Stati Uniti, dove non esiste obbligo di nazionalità (finora) per entrare a far parte di un’ orchestra.
Noi italiani siamo da sempre andati fieri della nostra specifica musicalità, del nostro modo di «pronunciare» le melodie, di una cantabilità che ci è naturale così come di una «solarità» del suono che ci piace raggiungere. Analogamente i musicisti austriaci si ritengono depositari della corretta realizzazione di un ritmo di valzer, quelli tedeschi si vantano di un loro «peso specifico» nell’eseguire la musica del Romanticismo e così via. Sono fenomeni ancora osservabili, reali? Oppure oggi tutte le orchestre reagiscono al gesti di un direttore allo stesso modo?
RICCARDO FRIZZA – Le caratteristiche nazionali delle scuole musicali sono radicate nella storia e nell’estetica delle rispettive tradizioni e, in parte, continuano a esistere. Penso che oggi il fenomeno sia un po’ meno marcato rispetto al passato, proprio per l’internazionalizzazione delle orchestre e la standardizzazione della formazione musicale. Le grandi orchestre tendono a rispondere ai gesti del direttore secondo prassi condivise a livello globale, più che secondo una «scuola» nazionale.
Dunque non ci sono più differenze?
RICCARDO FRIZZA – Non esageriamo. Non sono del tutto scomparse le sfumature di approccio: certe orchestre, per tradizione, mantengono una sonorità o uno stile riconoscibile, ma oggi conta molto di più la personalità del direttore e la sua interpretazione che l’origine geografica dell’ensemble. Il fenomeno che osservo in Ungheria ne è buon esempio: la barriera linguistica dell’ungherese non facilita l’internazionalizzazione delle orchestre e il fatto che tutti i musicisti ungheresi si formino nella stessa «Accademia Liszt», fa sì che vengano mantenute le loro tradizioni, lo stile esecutivo e il suono tipico della Mitteleuropa.
SPERANZA SCAPPUCCI – Anche secondo me le orchestre con una lunga storia alle spalle ancora oggi mantengono le loro tradizioni e sono riconoscibili per il loro suono e per una certa specializzazione in alcuni repertori a seconda del proprio Dna. Però le orchestre, blasonate o meno, sono tutte flessibili e reagiscono non solo al gesto ma soprattutto alle indicazioni musicali del direttore o della direttrice.
GIANANADREA NOSEDA – Certo, alcune caratteristiche legate alle tradizioni culturali persistono e sono percepibili anche oggi nel mondo globalizzato.
Sono elementi che dipendono dal suono della lingua, dalle differenti situazioni climatiche, dalle abitudini culinarie: insomma da tutto ciò che ci circonda fin dalla primissima infanzia e che contribuisce a evidenziare le differenze che ci identificano. Ciò nonostante, la facilità di comunicazione che favorisce gli scambi culturali ha permesso di inglobare nel nostro modo di vivere le diverse caratteristiche di cui sono ricche tutte le culture.
Oggi è possibile ottenere risultati straordinari con orchestre in qualsiasi parte del mondo, con un livello tecnico-musicale che in molti casi è addirittura superiore a quello del passato.
Un direttore abituato a dirigere in tutto il globo, lavorando con orchestre diverse, avendo di fronte un diverso pubblico, riesce a mantenere una propria specificità culturale? Vi sembra che questa sia una cosa richiesta, ricercata, desiderata, oppure per un’orchestra è più comodo pensare che tutti i direttori si comportino in modo analogo e, fatte salve le scelte musicali per lo specifico brano, tutto sommato non è diverso lavorare con una bacchetta italiana, statunitense o coreana?
SPERANZA SCAPPUCCI – Dipende dal repertorio. A volte vengono richiesti un direttore o una direttrice per un programma particolare, perché si ritiene che sia adatto a quel programma per inclinazione, esperienza specifica e così via. Nel campo dell’opera, ad esempio, spesso alcuni direttori sono specializzati in un certo repertorio e dunque la scelta ricade su di loro. Ma poiché la musica è un linguaggio universale, mi piace ripeterlo, credo che un musicista con una formazione «completa» venga poi scelto dalle orchestre per quello che può offrire in termini di interpretazione.
RICCARDO FRIZZA – Oggi un direttore che lavora a livello internazionale può e, secondo me, deve mantenere una propria specificità culturale; ma spesso questa si esprime più nella sensibilità artistica personale che in tratti «nazionali» riconoscibili. Il bagaglio culturale originario può influenzare il gusto, il fraseggio, il rapporto con il tempo e il suono, ma non è detto che venga sempre messo in primo piano, soprattutto in un contesto globalizzato dove la flessibilità e l’adattabilità sono qualità essenziali.
E dunque?
RICCARDO FRIZZA – Penso che per molte orchestre, oggi, non sia tanto importante la nazionalità del direttore quanto la sua capacità di comunicare un’idea chiara, forte e convincente dell’opera da eseguire. Certo, ci sono ancora contesti – soprattutto nei repertori «di casa» (Mozart a Vienna, Verdi a Parma, Mahler a Berlino…) – dove si cerca una coerenza tra tradizione e gesto direttoriale, e in questi casi la specificità culturale può essere persino desiderata o attesa. Ma in generale l’orchestra moderna si aspetta dal direttore carisma interpretativo, chiarezza di intenti e capacità di leadership più che una coloritura nazionale.
Quindi alla fine conta solo la soggettività di chi sale sul podio?
GIANANDREA NOSEDA – Direi di sì. E parlerei di unicità, la caratteristica di una persona che è data dalla somma di esperienze e di incontri che hanno segnato la sua vita, che rappresentano la sua essenza profonda. Siamo tutti opere uniche e come tali portiamo con noi un certo modo di intendere la vita, e quindi l’arte e la musica. Non credo che sia desiderata una differente specificità culturale; piuttosto credo che ci sia voglia di verità, di integrità. E talvolta i risultati musicali più soddisfacenti sbocciano dagli innesti che i bravi «giardinieri», magari nati molto lontano dal giardino, riescono a realizzare.
Una caratteristica del nostro tempo è quella di ritrovare dovunque gli stessi brand internazionali, che si voglia comprare un paio di scarpe o mangiare del pollo. A meno di essere molto curiosi, di studiare un po’, di investire energie per scovare produzioni, negozi, specificità che ancora marcano una differenza. Posto che nella musica classica questo accada, di che cosa va in cerca un direttore quando lavora con diverse orchestre del mondo?
GIANANDREA NOSEDA – Io sin dall’adolescenza ho sempre diffidato del pensiero unico e della massificazione: sono soluzioni comode alla mancanza di curiosità.
Espressioni come «ma lo fanno tutti», «perché complicarsi la vita?», «chi te lo fa fare?» appartengono a un gergo che mi ha sempre insospettito e, in fondo, preoccupato.
Lo studio della musica da varie prospettive – quella dello strumentista, del compositore, del musicologo e del direttore d’orchestra – mi ha invece costantemente spinto verso la ricerca, la scoperta, la comprensione. Ha aperto, anzi spalancato, le porte alla conoscenza di altre culture, attraverso la letteratura, i viaggi, gli incontri e gli scambi.
E rispetto alla musica che si scrive oggi?
GIANANDREA NOSEDA – Il nuovo illumina il vecchio e il vecchio dà sostanza al nuovo: è in questa prospettiva che affronto Mozart come se fosse un compositore contemporaneo e la musica di oggi come quella di un autore del periodo classico.
Conta la familiarità con i compositori locali, che siano storici o viventi?
RICCARDO FRIZZA – Molto. Per evitare il rischio dell’omologazione esecutiva, un direttore che lavora con orchestre di diversi Paesi può cercare proprio le sfumature e le identità ancora vive nei musicisti e nei contesti locali. Questo può significare una particolare familiarità con il repertorio nazionale oppure una naturalezza nel fraseggio, nel ritmo, nel colore del suono che si è sedimentata nel tempo grazie alla tradizione. Personalmente amo esplorare diversi autori e periodi storici differenti evitando di restare in una comfort zone. Altri colleghi, invece, preferiscono concentrare il proprio lavoro su alcuni compositori o periodi storici che sentono più affini, costruendo così una forte identità personale, indipendentemente dal luogo in cui dirigono.
SPERANZA SCAPPUCCI – Anche io trovo sempre stimolante dedicarmi a repertori diversi. Per esempio con i Wiener Symphoniker ho amato molto dirigere le musiche di Johann Strauss, perche sento di aver imparato qualcosa dai musicisti stessi. Oppure, con la Royal Stockholm Philharmonic Orchestra, mi è piaciuto dirigere anche musica contemporanea, perché sono abituati a suonarla e leggono a prima vista, in maniera fantastica, le partiture piu complicate. Con l’orchestra della Scala aver potuto affrontare Bellini è stato un piacere immenso, e allo stesso modo poter dirigere Berlioz con l’Orchestra nazionale di Lione.
In che lingua si gestiscono le prove? Si usa l’inglese come passepartout? Oppure meglio il tedesco in Germania, il francese in Francia e così via? Oppure, ancora, ci si appoggia sull’italiano, che è pur sempre la lingua della musica, quella ancora oggi usata per le indicazioni di tempo, espressive, dinamiche?
GIANANDREA NOSEDA – Nelle prove d’orchestra l’inglese è ormai diventato una lingua franca a livello internazionale. Devo dire, però, che quando si è in grado di condurre le prove nella lingua locale, si viene molto apprezzati dalle orchestre: lo considerano una forma di cortesia e rispetto. Se l’uso della lingua del posto risulta invece troppo incerto o macchinoso, spesso è l’orchestra stessa a proporre spontaneamente un passaggio all’inglese, riportando la comunicazione su un terreno linguistico neutro, condiviso.

Perché, comunque, l’inglese lo conoscono tutti?
GIANANDREA NOSEDA – Sì. I musicisti sono una delle categorie professionali più abituate al multilinguismo, e raramente incontrano reali difficoltà di comunicazione.
SPERANZA SCAPPUCCI – Vero. E anche io cerco sempre di parlare la lingua del luogo dove sto lavorando, dunque inglese in Gran Bretagna, Stati Uniti e Canada, tedesco nei Paesi germanofoni, francese in Francia e Belgio e ovviamente italiano in Italia. Negli altri Paesi uso l’inglese.
RICCARDO FRIZZA – Io parlo in inglese con quasi tutte le orchestre straniere con cui lavoro, tranne in Francia dove le orchestre apprezzano che si parli un buon francese. Non parlo tedesco sufficientemente bene per poter sostenere il corso delle prove. Posso al massimo intercalare termini musicali tedeschi in una conversazione sostenuta in inglese.
Un’orchestra sinfonica proietta un’immagine di società ideale, pacificata, certamente retta da un sistema molto gerarchico – con il direttore come vertice assoluto – ma capace di produrre risultati nei quali decine di altissimi professionisti, ciascuno con la propria specificità, cooperano in modo efficace, spesso per molti anni. È un esempio da seguire, per il mondo in cui ci troviamo a vivere? Oppure bisogna semplicemente goderne, in senso estetico, emotivo, culturale, ma lasciar perdere qualunque parallelo con la vita al di fuori di una sala da concerto?
SPERANZA SCAPPUCCI – Spesso viene fatto questo parallelo, è vero, e in un mondo ideale bisognerebbe vivere in armonia. Per me non è un’idea sbagliata.
RICCARDO FRIZZA – Concordo: l’orchestra sinfonica può essere vista come una metafora potente di una società ideale. Una comunità di individui altamente specializzati che, pur nelle differenze dei ruoli e delle responsabilità, contribuiscono alla costruzione di qualcosa di più grande di loro. E il direttore ha certamente una funzione di guida, ma senza l’adesione libera e competente di ogni singolo musicista quella guida resta puramente formale.
In che senso?
RICCARDO FRIZZA – Ogni elemento è fondamentale, dal primo violino al percussionista, dal clarinetto al contrabbasso. Nessuno «vince» da solo, tutti devono ascoltarsi, regolarsi, dare spazio agli altri, sostenersi. In questo senso l’orchestra insegna la responsabilità reciproca e la bellezza del lavoro collettivo, senza perdere l’individualità. Nel mio programma triennale del Festival Donizetti Opera ho posto al centro delle linee guida proprio questo principio, detto della «leadership armonica».
E lo si può applicare alla vita vera?
RICCARDO FRIZZA – No: resta un esempio utopico. Proprio perché si tratta di un sistema molto strutturato, disciplinato, gerarchico, non dobbiamo prenderlo come modello sociale tout court. La vita reale è fatta anche di conflitto, di disaccordo, di negoziazione tra interessi diversi, di voci dissonanti che non sempre trovano armonia. Immaginare una società che funzioni sempre come un’orchestra rischia di portarci a un’idealizzazione a scapito del pluralismo e del dissenso, che invece sono comuni in una società democratica.
GIANANDREA NOSEDA – Anche per me un’orchestra rappresenta uno straordinario spaccato di società ideale, in cui ogni membro mette il proprio talento al servizio degli altri, con l’obiettivo comune e superiore di servire la musica.
E un direttore a comandare?
GIANANDREA NOSEDA – Ma no! Il direttore d’orchestra, ben lontano dall’esercitare un potere assoluto, è piuttosto il responsabile del percorso di coesione che porta al risultato condiviso. La sua autorevolezza nasce unicamente da una profonda conoscenza della partitura, che si acquisisce attraverso uno studio rigoroso, approfondito, spesso estenuante. Non esistono scorciatoie: solo l’impegno, la dedizione e la serietà possono legittimare la sua posizione di guida. Ciò che regge davvero questo sistema è l’amore per la musica, il senso di servizio, il rispetto e la gratitudine verso gli artisti dell’orchestra. A tutto questo io unisco un’intransigenza rivolta prima di tutto verso me stesso, cercando, nel contempo, di non prendermi troppo sul serio. Questo, secondo me, è un direttore d’orchestra.