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 2025  giugno 01 Domenica calendario

L’alchimista della narrazione

Ogni rispettabile decadenza, scriveva Friedrich Nietzsche, è caratterizzata dalla propensione generale a provare e mettere da parte i valori come vestiti e ogni decadenza letteraria degna di questo nome manifesta una spiccata propensione a trattare nello stesso modo i suoi autori. I numi dell’interessante e dell’attuale esigono sacrifici e la loro ricompensa è l’oblio. A ogni cambio di stagione va in soffitta una generazione di scrittori per lasciare spazio a quella seguente; a ogni anniversario un classico viene rispolverato, rimesso a nuovo e infine riposto con il rischio di non tornare a vedere mai più la luce.
    
Si annunciano ora anni manniani, due per l’esattezza. Poiché alle celebrazioni per i 150 anni dalla nascita di Thomas Mann (Lubecca, 6 giugno 1875 – Zurigo, 12 agosto 1955), farà subito seguito la possibilità di pubblicare, a 70 anni dalla morte, tutte le sue opere liberamente e già si annunciano diverse Montagne, rigorosamente incantate, oltre a edizioni varie di racconti e romanzi. È lecito nutrire qualche curiosità per il modo in cui Thomas Mann reggerà alla prova dei festeggiamenti e del mercato. Risulterà ancora interessante? Sarà ancora riconosciuto nella sua attualità uno scrittore di romanzi troppo lunghi e complessi per soddisfare l’epoca della parsimonia verbale e della comunicazione ipersemplificata? È possibile. Del resto, di morti e rinascite Mann ne ha conosciute già tante.
Per molto tempo, in Germania come in molti altri Paesi, l’opinione su Thomas Mann è stata condizionata da giudizi morali fondati su una biografia mal conosciuta, che finivano per riflettersi sulla valutazione dei suoi romanzi. Si imputavano a Mann le presunte ambiguità politiche, il tono ostinatamente altoborghese dello stile di vita, le arbitrarie discriminazioni fra i figli, spesso accoppiate a una critica della supposta freddezza di temperamento, le ipocrisie di un ménage coniugale durato una vita intera nonostante le frequenti tentazioni omoerotiche confinate (ipocrisia dell’ipocrisia) in una dimensione puramente platonica. Eppure, in mancanza di migliori informazioni, sarebbe bastato degnare della giusta attenzione i diari (che presto appariranno anche in italiano grazie al lavoro di Elisabeth Galvan e del tenace gruppo di studiosi da lei coordinato) per riconoscere, dietro la maschera dell’autore algido e controllato, un carattere tormentato, non di rado autoironico, afflitto di continuo da dubbi amletici, ma coraggioso fino all’incoscienza quando la situazione lo richiedeva; ambivalente, certo, nei suoi sentimenti e nelle sue pulsioni, ma capace di una costante e autentica devozione nei confronti della moglie Katia, di slanci di profondo affetto verso i figli e di un pudico ma potente senso di umanità nei confronti di amici e perfino nemici.
Non ci fossero stati, in Italia, il cinema di Luchino Visconti, l’infaticabile lavoro editoriale di Lavinia Mazzucchetti che per prima rese possibile conoscerne l’intera opera e il riconoscimento di tanti intellettuali e autori tenacemente vicini al suo mondo di invenzioni narrative e meditazioni di vastità enciclopedica, forse anche in questo Paese i meriti poetici, estetici, filosofici e politici dell’opera di Thomas Mann non avrebbero incontrato il riconoscimento di cui per fortuna godono.
Del resto, qui come altrove, ci fu un tempo per considerare Mann un autore attardato su vecchi stilemi poetici, l’ultimo dei grandi narratori ottocenteschi, uno scrittore dedito alla riproduzione del «chiacchiericcio» dei salotti borghesi nel bel mezzo di un mondo in fermento, un mediocre moralista, uno scialbo pensatore, un propagandista politico inaffidabile e un sicuro perdente nel confronto (a ben vedere del tutto improponibile) con Robert Musil. Solo che Thomas Mann non fu nulla di tutto questo e forse oggi lo si può dire senza il timore di dover affrontare diatribe e contradditori. Per tutta la sua vita di scrittore Mann fu soprattutto uno sperimentatore di forme e di pensieri, un alchimista della narrazione al quale riuscì l’impresa di salvare il romanzo dall’aspirazione moderna a disfarsi della rappresentazione epica di sé stessa.
Ciò che a prima vista rende dubbia un’affermazione del genere è la propensione a rinchiudere la sua opera nei confini dell’adesione alla realtà e la causa di questa ostinazione è il malinteso che fa dei Buddenbrook il più grande e forse l’unico capolavoro dello scrittore. Quel romanzo invece, bellissimo, era comunque l’opera di un venticinquenne semisconosciuto in cerca di un contenitore realistico, sicuro e attraente per il pubblico, in cui calare con prudenza le novità della sua scrittura. In effetti, dietro alla saga familiare non è facile scorgere la tessitura musicale della trama (una tetralogia percorsa da innumerevoli, piccoli motivi conduttori, proprio come in Richard Wagner), la combinazione spericolata di filosofie opposte (Arthur Schopenhauer e Nietzsche), gli slanci della trama nella sfera fiabesca e fantastica. Tutto in Mann sembra aspirare alla rappresentazione realistica, ma al contempo la narrazione rende evidente che la forma-romanzo non contiene più la realtà e la prolunga in mille direzioni diverse.
Se dunque si abbandona la convinzione che in Mann tutto resti in superficie e che la trama dell’apparenza non abbia altro da offrire che la sua raffinatissima tessitura, si riesce a vedere come ogni romanzo ne nasconda un altro forse più grande. Così nella Montagna magica, che si compone di un unico sogno di 1.200 pagine, ogni immagine, ogni pensiero, ogni dettaglio nasconde segreti significati allegorici per mezzo dei quali la rappresentazione della civiltà europea e della sua catastrofe trova una più profonda interpretazione psicologica. Così nella tetralogia di Giuseppe e i suoi fratelli, il colossale romanzo degli anni Trenta, Mann cerca di indicare a un’Europa smarrita, sotto le apparenze di una semplice narrazione biblica, ciò che i miti suggeriscono alla ragione intorno alle origini e ai fondamenti di una civiltà che sappia rendersi compiutamente umana traendosi fuori dal buio della violenza, della superstizione e dell’oscurantismo. E così nel Doctor Faustus Mann inventa addirittura la biografia immaginaria di un genio della musica nella cui storia intellettuale si delineano i prodromi del patto che la Germania ha stretto con il nazismo, salvo scoprire che quella biografia è una falsificazione per mezzo della quale il narratore, non immune a sua volta dal contagio della dittatura, crea la leggenda di un patto demoniaco per nascondere la vera storia del declino morale di tutta la civiltà tedesca.
Thomas Mann ha cercato sempre di rappresentare nelle sue narrazioni e anche nei suoi saggi più grandi il romanzo della civiltà, delle sue cadute nell’orrore e delle sue risalite verso la misura dell’umano. Anche nell’ultimo, stupendo romanzo portato a termine, L’eletto, il tema resta lo stesso, ma la forma e i percorsi della narrazione mutano per l’ennesima volta: la storia del papa Gregorio, generato da un incesto e colpevole a sua volta di un incesto, è la trasfigurazione leggendaria di una caduta e di una rinascita.
Avrebbe mai potuto scrivere tutto questo un cronista del chiacchiericcio salottiero, un borghese conservatore e appagato di sé, un arido e algido osservatore delle cose?
Il fatto è che non furono l’origine patrizia o le scelte di vita a decidere la strada di Thomas Mann e neppure l’enorme successo o il favore della sorte. Proprio al contrario: a decidere la sua strada furono il dolore, la morte, la storia e la capacità di individuare i fili sottili e indistruttibili che legano gli uni all’altra in un minaccioso disegno distruttivo. Senza quella stessa sensibilità per la morte che nella Montagna magica Mann attribuisce al suo Hans Castorp e che anche lui cominciò a sperimentare poco più che bambino dopo la scomparsa del padre; senza quel senso di perdita della propria identità e di collasso di tutto il mondo che lo circonda, quello stesso sentimento che attribuirà ai suoi Giuseppe, Mosè o Gregorio, e che attraverso due guerre e due esilî proverà più volte; senza la strenua volontà di sottrarsi alla passiva presa d’atto della catastrofe, una volontà che prende forma come conquista di una cultura sterminata e come creazione di un’opera opposta all’infuriare della storia, Thomas Mann non sarebbe Thomas Mann: un poeta per tempi difficili.
Può darsi, dunque, che neppure il rituale dell’anniversario, neppure le nuove edizioni che di qui a un anno provocheranno una piccola invasione nelle librerie avranno il potere di dare a Thomas Mann un nuovo pubblico; ma è difficile immaginare quale altro momento del recente passato avrebbe potuto restituire all’opera di Mann l’aura quasi profetica che le crisi di oggi le assegnano.
È infatti se non altro indicativo che Non dico addio, il più recente romanzo della scrittrice coreana Han Kang, premio Nobel nel 2024, richiami tanto nel tema quanto nel messaggio, il «sogno sotto la neve» di Hans Castorp che costituisce il centro ideale della Montagna magica. Anche nel suo magnifico romanzo la protagonista trova riparo da una nevicata colossale in una casa di legno dove, in punto di morte, è visitata dai ricordi di uno spaventoso massacro e dal sogno dell’amore più alto: attraverso il tempo e lo spazio la magia della neve è tornata a compiere la sua opera rivelatrice.
Questa rivelazione è per Mann il messaggio forse più forte di tutta la sua opera: quando il mondo diventa il ricettacolo di colossali tragedie e l’umanità viene travolta dalla «simpatia per la morte», la tenuta di ogni cultura e di ogni passato ideale di civiltà deve cedere alla tentazione dell’abbandono di ogni misura etica, alla trasgressione di quel dovere morale che non è altro se non il lavoro al servizio dell’estensione e del potenziamento del dominio della vita. E qui, come dovunque abbia ancora senso opporsi all’orrore di un’umanità in congedo da sé stessa, vale l’interrogativo con cui il narratore della Montagna magica si congeda dal suo eroe sul campo di battaglia della Prima guerra mondiale: «Forse che anche da questa sagra mondiale della morte, da questa voluttà smaniosa e maligna che incendia tutt’intorno il piovoso cielo della sera, potrà un giorno innalzarsi l’amore?».