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 2025  giugno 01 Domenica calendario

I 40 anni dell’8 per mille. Quanto vale la religione!

Questo è tempo di pubblicità per l’8 per mille e sembra sia stato sempre così, tanto siamo abituati. Invece no: è piuttosto recente il finanziamento pubblico della religione mediante l’8 per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche da destinarsi, sulla base della scelta dei contribuenti, a Stato, Chiesa cattolica e altre confessioni. Il sistema è stato introdotto nel 1985 e compie dunque quarant’anni, 35 dalla prima applicazione nel 1990.
Fu una grande svolta. Una decisione fin lì dello Stato, d’intesa con l’autorità ecclesiastica, veniva delegata al cittadino; un finanziamento fin lì riservato alla Chiesa cattolica veniva esteso ad altre confessioni religiose. Prese allora avvio un esperimento di democrazia fiscale e di pluralismo religioso unico in Europa. Col tempo, quelle caselle sui modelli per la dichiarazione dei redditi (14 quest’anno) hanno fotografato un Paese diverso: più cattolico, perché ancora sceglie in maggioranza la Chiesa cattolica e con un attaccamento tanto più significativo quanto più la tradizione cattolica è messa in discussione; più secolarizzato, perché anche tra chi firma per la Chiesa tanti non credono o non praticano; più multireligioso, perché in molti, anche cattolici, firmano per altre chiese e religioni.
L’8 per mille, però, non è soltanto una finestra sulla piazza. È la piazza stessa: il luogo in cui si compete, lo strumento con cui si compete per i soldi e per il consenso, per l’immagine e per l’anima, per la carne e per lo spirito. Proprio su questo dobbiamo riflettere, nel compleanno d’una democrazia fiscale multireligiosa che ha raggiunto la mezza età: di come essa ha cambiato noi e il nostro modo di guardare a noi stessi, di cosa ci piace e non ci piace, e soprattutto di quanto sia sostenibile e a quali condizioni la competizione religiosa nella nostra piazza.
La legge 222 del 1985 nacque sul solco dei due accordi del 1984, quello di Villa Madama che riscriveva il concordato e quello con valdesi e metodisti che, come da Costituzione, estendeva la bilateralità alle «confessioni diverse dalla cattolica». La riforma incarnava anzitutto un nuovo approccio della Chiesa cattolica. Come auspicato vent’anni prima dal Concilio Vaticano II, si abbandonava una parcellizzazione delle risorse materiali da cui derivavano gravi squilibri nel reddito degli ecclesiastici. Nel 1985 nascevano gli Istituti diocesani per il sostentamento del clero, presso i quali si accentrava la gestione dei beni e una ridistribuzione equa ai sacerdoti, e l’Istituto centrale, destinatario di un finanziamento pubblico che concorreva a quel sostentamento. La Chiesa cattolica chiedeva ancora il sostegno dello Stato, ma accettava di mettersi in gioco e di delegare la scelta ai contribuenti. Dal canto suo lo Stato continuava a sostenere la Chiesa, ma rimetteva la scelta ai cittadini e includeva altre fedi.
Nei quattro decenni da allora, il sistema ha accompagnato il cambiamento della società, dello Stato, delle confessioni. Grazie a una scelta largamente in suo favore, la Chiesa cattolica italiana si è vista garantire risorse ingenti con le quali provvedere non soltanto al sostentamento del clero, per un ammontare di 389 milioni di euro nel 2024 (a copertura del 70% di quanto speso per gli stipendi degli ecclesiastici), ma anche a interventi per carità, culto e pastorale, 521 milioni nel 2024. Tre fattori hanno protetto la Conferenza episcopale italiana: la scarsa fiducia dei contribuenti verso la spesa dello Stato; la concorrenza limitata delle altre religioni; la ripartizione delle quote non espresse secondo le quote espresse.
Quest’ultimo meccanismo – su cui regna ancora l’ignoranza, come lamenta la Corte dei Conti – ha un forte impatto. La larga astensione dalla scelta, il 60% nel 2024, consente alla Chiesa cattolica di acquisire la maggiore fetta del finanziamento con una percentuale di scelte relativamente bassa se misurata sul totale dei contribuenti. Poiché, come nelle elezioni politiche, chi vota sceglie anche per chi non vota, nel 2024 è stato sufficiente il 27% di firme in suo favore sul 100% dei contribuenti perché la Chiesa cattolica ricevesse il 67% dell’8 per mille complessivo, pari alla percentuale di chi l’ha scelta tra chi ha espresso la propria preferenza. Di qui l’esito contradditorio d’una Chiesa cattolica più autonoma e competitiva, ma anche più esposta alla volatilità dell’opinione pubblica e alle strategie dei concorrenti.
Se n’è avuta la dimostrazione negli ultimi anni, quando le firme per lo Stato sono passate dal 7,6% del 2005 al 26,8% del 2023. Ha infastidito la Conferenza episcopale che dal 2020 il governo abbia consentito ai contribuenti di scegliere una destinazione in particolare tra le cinque a gestione statale, cui si è aggiunta dal 2024 la sesta della lotta alle dipendenze. In un’intervista ad «Avvenire» nel gennaio scorso, il professore di Roma Tor Vergata e collaboratore della Conferenza episcopale Luigi Lacroce ha lamentato in proposito una «violazione del principio di bilateralità» da parte del governo, intervenuto senza accordarsi con l’autorità ecclesiastica su una legge formalmente unilaterale, ma sostanzialmente concordataria. Resta un calo di preferenze per la Chiesa cattolica che non può spiegarsi unicamente con l’intraprendenza dello Stato nel pubblicizzare la spesa pubblica sociale.
Certo, i dati rivelano come la pandemia e il risveglio di consapevolezza del ruolo dello Stato che essa ha comportato siano coincisi con una marcata riduzione del gap tra le firme per la Chiesa e quelle per lo Stato. Tuttavia, se le firme per la Chiesa sono scese negli ultimi vent’anni dal 90% al 67% è soprattutto perché gli italiani, pur consapevoli di quanto essa faccia per tutti, sono sensibili agli scandali ecclesiastici sessuali e finanziari e sono infastiditi da una Chiesa che speculerebbe sull’impoverimento dello Stato.
A dispetto degli sforzi della Conferenza episcopale per persuadere della libertà, della pulizia e della trasparenza della Chiesa, le risorse a disposizione dei vescovi restano, per l’opinione pubblica, ancora troppo opache nell’entità, nella provenienza, nella gestione. Cresce intanto la concorrenza delle altre confessioni, ormai circa un 6% di preferenze (erano il 2% trent’anni fa), una quota suscettibile di aumentare con l’imminente ingresso nel sistema di un milione circa di ortodossi di romeni.
Le regole sul fenomeno religioso sono sempre state un laboratorio decisivo per il Paese. In questi quarant’anni la democrazia fiscale dell’8 per mille ha aperto la via al 5 per mille per il terzo settore, al 2 per mille per i partiti politici, e a un più generale coinvolgimento dei contribuenti. Il sistema è ora in discussione. Crediamo ancora che una libera competizione nella nostra piazza migliori fedi e istituzioni, e operiamo dunque per una concorrenza più aperta, più leale, più inclusiva, anche di testimoni di Geova, musulmani e atei, tuttora esclusi? Oppure dobbiamo renderci conto che il sistema non è più sostenibile, proteggere il finanziamento alla Chiesa cattolica e smettere di aggiungere caselle? Il dibattito è sensibile, la decisione è delicata. «Il tuo 8xmille andrà all’ambiente, ai fragili, agli animali. E perfino ai buddhisti», si fa pubblicità così, l’Unione buddhista italiana. È forse questo il lascito migliore di quarant’anni di 8 per mille, questo è il valore da curare in futuro: la creatività, il dinamismo, la pluralità della nostra offerta religiosa.