Tuttolibri, 31 maggio 2025
"L’ho sposato per allegria Ma Leonard Michaels aveva un talento immenso"
Era il primo a scherzarci sopra: «Molti autori produrrebbero in sei mesi quanto ho scritto io in tutta la mia vita. Joyce Carol Oates, poi, ci metterebbe sei minuti». E tuttavia, con quel poco Leonard Michaels (1933-2003), figlio di ebrei polacchi emigrati Oltreoceano per sfuggire alle persecuzioni razziali, si è guadagnato un posto nell’olimpo letterario americano accanto a Roth, Malamud, Updike, Singer e Bellow. Da noi è ancora poco conosciuto, ma i suoi sparuti adoratori ne vanno diffondendo il culto e reclamano a gran voce qualche briciola postuma della sua arte. Se ne annuncia adesso una importante, che qui presentiamo in anteprima, appannaggio (per ora) del pubblico di lingua inglese. Sul numero di agosto della rivista americana Revel (dell’Unbound Edition Press) uscirà uno zibaldone di suoi pensieri curato da Katharine Ogden, la quarta e ultima moglie, traduttrice, sceneggiatrice e biografa. La grande novità di questo Image of Mind è che per la prima volta riflessioni e appunti, ordinati cronologicamente, escono corredati da disegni originali dell’autore. Non illustrazioni dei testi, puntualizza la curatrice, ma «sfoghi di sentimento» paralleli, che riflettono il tumulto quotidiano della sua vita emotiva. Quarantaquattro pagine di lampi critici e confessioni private contornati da schizzi di animali, persone e cose, grafismi, sequenze di numeri e parole: combinazioni che in molti casi possono far pensare alla poesia visiva e rivelano un altro talento dello scrittore.
Michaels, spiega la vedova, aveva un bisogno fisico di lavorare con le mani. Non si limitava a impreziosire di immagini i suoi quaderni: scolpiva il legno e la pietra (mi mostra una testa di cavallo incastonata nel parapetto della scala d’un suo casolare umbro) e disegnava per lei librerie e camini: «Rivendicava orgogliosamente di essere figlio di contadini. Mio padre, diceva, sapeva usare l’aratro. Aveva introiettato l’idea che lavorare all’università, ossia il lavoro intellettuale, fosse qualcosa di poco rispettabile. Era quasi invidioso di me che all’epoca andavo ogni giorno a lavorare con muratori, elettricisti e idraulici» (Katharine allude ai lunghi anni in cui si è occupata del restauro di quindici rustici nei boschi di Preggio, in Umbria, il magnifico resort di cui ora è manager). In molti casi, i brani da lei selezionati sono utili chiavi di lettura per decrittare l’opera michaelsiana. Rivelano certi suoi invaghimenti artistici – ad esempio, per la pittura degli espressionisti tedeschi – e certe antipatie letterarie (prevalentemente francesi), ma risultano particolarmente preziosi allorché costeggiano i temi centrali della sua narrativa: il narcisismo contemporaneo, la falsità e vacuità delle relazioni mondane, la vita di coppia, i conflitti della coppia, il tradimento. Colpiscono, ad esempio, certe osservazioni sulla gelosia e l’odio nel rapporto amoroso: senza queste esperienze, ammette Michaels, è impossibile capire cosa si desidera veramente. Solo nell’adulterio possiamo scoprire quanto siamo soli.
L’occasione di questa pubblicazione è propizia per chiedere a Katharine, vestale della sua memoria e vedova tuttora inconsolabile (sta scrivendo un memoir sui loro sette anni d’amore) chi e come era davvero il suo Lenny. Partiamo dal loro incontro, che è già un romanzo. Lui insegna letteratura all’università di Berkeley, è docente dal 1969, l’anno della sua prima raccolta di racconti Going places, esordio folgorante, che fa sentenziare a Susan Sontag, poi divenuta sua amica: «È lo scrittore americano più notevole apparso sulla scena negli ultimi anni». Katharine è dottoranda. Hanno diciassette anni di differenza, ma si tengono d’occhio, specie quando si incontrano a qualche festa con i rispettivi partner. Nell’86 una prima chance che non viene colta: «Lui si era separato dalla terza moglie, la poetessa Brenda Hillman, e mi invitò a pranzo» racconta Katharine. «E lì feci l’errore di parlargli troppo di un ragazzo con cui avevo avuto una relazione tormentata. Lo feci perché ero in imbarazzo, volevo sembrare interessante; ma lui capì che recitavo e se ne ebbe a male». Al successivo giro di giostra, un decennio dopo, le cose si incastrano perfettamente. Un’amica comune, Wendy Lesser, fondatrice della rivista Threepenny Review, di cui lui è supporter e assiduo collaboratore, apprende che entrambi hanno appena rotto con il partner di turno e sono a pezzi. Al che butta lì all’amico: «Perché non vai a trovare Katharine in Italia?». Lenny non se lo fa ripetere: «Sbarcò a Roma poco prima del Natale del ‘95 e due giorni dopo mi chiese di sposarlo» prosegue la vedova. «Ci unimmo in matrimonio a Berkeley il 2 febbraio 1996».
Come spiega questa smania di risposarsi dopo tre fallimenti consecutivi? «Non voleva perdermi. Avrebbe voluto farlo già dieci anni prima. A suo modo, era un uomo dotato di un forte senso religioso». Obietto: ma non aveva paura di legarsi a un dongiovanni? Michaels è con Singer e Updike uno degli scrittori più sessuofili e sensuali della letteratura americana. «Idea sbagliata. Nella vita non era un donnaiolo. Era un vero marito. I problemi li ha avuti con le mogli precedenti».
Com’era nella vita Leonard? Corrispondeva alla brillantezza della sua scrittura? E qui, prima di riportare la risposta dell’ultima compagna, devo aprire una parentesi. Michaels produsse come narratore solo due romanzi, Il club degli uomini e Sylvia, pubblicati in Italia da Einaudi e Adelphi. Il primo, suo unico bestseller da cui fu pure tratto un film (di scarso successo), venne attaccato dalle femministe. A torto perché era, e rimane, uno scoppiettante quanto impietoso trattato di psicologia maschile. Il secondo è in realtà un memoir, la struggente cronaca del suo inferno coniugale accanto a Sylvia Bloch, ragazza paranoide che si suicidò con i barbiturici a pochi metri da lui, nel bagno della loro casa, la notte di Capodanno. Ma i veri capolavori di Michaels sono i racconti, meritoriamente raccolti in volume l’anno scorso da Racconti edizioni con il titolo Potendo, li avrei salvati. Michaels è un maestro della short story, degno di stare accanto a Carver e Cheever.
Di recente, Emmanuel Carrère ha detto di Philip Roth: «Non ha mai scritto una frase banale». Ebbene, del Michaels novelliere si può dire, come già fece il critico del Boston Globe: «In tutta la sua carriera non ha scritto una sola frase noiosa». Ogni sua pagina è uno scintillio di metafore e similitudini sorprendenti, più da poeta che da prosatore. Ma non dovete pensare a un tardo epigono parnassiano: la ricerca della bellezza formale si unisce in lui alla concretezza del realista e a una vena di umorismo di puro stampo kafkiano.
Assomigliava dunque a questo funambolo della scrittura l’uomo sposato da Katharine? Lei annuisce: «Era comico, autoironico. Una mente scattante e fantasiosa. Stare con lui era uno spasso. Era diretto e profondo. Scriveva anche parlando. Stava ore al telefono con gli amici; e ne aveva tanti, uomini e donne. Aveva il genio dell’amicizia. Il suo approccio poteva spiazzare perché saltava i convenevoli e andava subito al cuore della questione che in quel momento l’appassionava. Poteva esordire con un «l’altro giorno leggevo Spinoza e non mi torna questa sua affermazione». Era abituato a parlare fuori dai denti e combinava disastri a certi ricevimenti. Pagò cara la sua schiettezza soprattutto nel lavoro: a Berkeley bisognava essere politically correct, mentre lui infrangeva le regole del galateo istituzionale. Dava apertamente del cretino al collega che non stimava e sosteneva a spada tratta chi, a suo parere, meritava. Era una presenza scomoda. Per questo lo emarginarono, escludendolo dalle riunioni più importanti, quelle in cui si decidevano le sorti dei docenti. Alla fine dovette arrendersi: nel ‘94 accettò una buonuscita e lasciò l’insegnamento.
Ha continuato però a sostenere i giovani esordienti e ad aiutare gli aspiranti scrittori di cui riconosceva il valore. Era famoso per questo. Aiutò a pubblicare la sorella di Steve Jobs, Mona Simpson, David Bezmozgis, Mary Ward Brown, una debuttante settantenne, Eduard P. Jones e altri. Anche Carver gli portò dei manoscritti di cui fece l’editing».
Il generoso talent-scout aveva rapporti con gli altri grandi scrittori ebrei americani? «Era molto amico di Singer» risponde Katharine. «Lo invitava spesso alle rassegne di scrittori che organizzava per l’università. Erano simili. Una volta Singer gli disse: “Tu sei comico, io sono comico: dovremmo formare un duo ed esibirci per strada"».
Leonard aveva avuto un imprinting yiddish. Fino ai sei anni aveva parlato solo quella lingua. Lui e la madre, un’ex contadina minuscola e vitalissima, che l’aveva messo al mondo a 17 anni e soleva camminare scalza e portare una treccia lunga fino al sedere, avevano imparato l’inglese insieme, lui alle elementari e lei seguendolo nei compiti scolastici. Leonard si scordò nel tempo il lessico originario, ma in un brillante saggio della maturità, intitolato My Yiddish, riconobbe che il suo modo di scrivere era largamente influenzato dal linguaggio dei genitori. Il paradosso come modalità cognitiva, l’arguzia, l’umorismo discendevano da quei succhi originari, anche se, come faceva dichiarare al suo alter ego letterario, Philip Leibowitz, lui era tutt’uno con lo «stile New York»: «un ragazzo di città al passo con i tempi». In quale altro modo trasparivano le sue radici?, domando a Katharine. «Non credeva, ma era profondamente orgoglioso delle sue origini» risponde. «Pensava che gli ebrei avessero una marcia in più. Che fossero più intelligenti. Una convinzione che andò rafforzandosi nel tempo».
Immenso talento, quello di Michaels, ma non messo pienamente a frutto: su questo tutti concordano. Perché era così poco prolifico? «È vero, aveva una reputazione superiore alla produzione. Nessuno dubitava del suo talento e tutti gli editori gli chiedevano un romanzo. Lui mi confidava spesso che avrebbe voluto rinchiudersi in una stanza senza finestre, come un asceta, per non essere distolto dal lavoro letterario, che in fondo l’ossessionava» dice Katharine. «Ma era così sociale e vitale. Amava l’arte, il jazz, ballare. Andava ai concerti e alle feste. Aveva una vita sociale intensa. La trovava falsa, ma non aveva il potere di rifiutarla. Tre matrimoni difficili, poi, con due figli maschi che gli davano parecchi grattacapi. E poi c’era il fatto che non era portato per il romanzo: era più poeta che romanziere. Procedeva lentamente, scrivendo molte versioni di ogni storia, correggendo mille volte ogni pagina». Nei suoi racconti è centrale il tema del tradimento, compiuto e subito. Perché? «Lenny era romantico, fin troppo aperto. Tendeva a innamorarsi degli altri e a darsi completamente. Per questo rimaneva spesso deluso e ferito, e allora troncava brutalmente». In ultimo, nei suoi anni italiani, spesi ora nella pace assoluta del bosco umbro, ora nella confusione della Città Eterna, dove abitò prima in Vicolo della Penitenza e poi via San Francesco di Sales, aveva preso a scrivere una serie di racconti diversi dal suo solito stile: le Nachman Stories, confluite anch’esse nella raccolta Potendo, li avrei salvati. Il protagonista, Nachman, è per tanti versi il suo opposto: un matematico solitario e scialbo, senza estri né desideri. Anche la scrittura decelera, si smorza. Alla bulimia di vita sembra subentrare un desiderio di raccoglimento. «Nachman è un po’ il monaco che avrebbe voluto, ma non poteva, essere» delucida Katharine. «Un uomo senza appetiti e amori, con una fantasia enorme e una vita ritirata. Il mondo invade lui, ma lui non cerca la vita. A differenza di Leonard». Non riuscì a completare il progetto, ma poteva dirsi comunque appagato da quanto aveva realizzato? «No» risponde secca Katharine. «Leonard non era soddisfatto della sua carriera. Sapeva di possedere un talento enorme che aveva in qualche misura sprecato perché non sapeva rinunciare alla vita».