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 2025  maggio 30 Venerdì calendario

Intervista a Paolo Buonvino

Paolo Buonvino, siciliano, è uno dei nostri più importanti compositori di colonne sonore. Da giovane fu assistente musicale di Franco Battiato, e da allora ha scritto musica per alcuni tra i più grandi registi italiani. L’ultimo suo lavoro è la colonna sonora del Gattopardo, su Netflix. Oggi, a Roma, partirà una serie di concerti che proseguirà a luglio in Sicilia e a Milano.
Che cos’è la musica?
«Già il nome è significativo: è ispirato alle muse, figlie di Zeus. Potevamo chiamarla suonica, visto che si fa con i suoni, come la letteratura con le lettere. Il termine musica invece segnala la vicinanza a dio, e fare musica significa dare nutrimento alla parte più intima dell’uomo. Siamo fatti di tanti elementi: misticismo e rabbia, felicità e dolore, ironia e tante altre cose che sono tutte muse. Penso anche che la musica sia un po’ di chi la fa ma soprattutto di chi la ascolta. Me ne accorsi quando feci Eppure sentire per Elisa. Una sera tardi ero davanti a casa, passò una macchina super tamarra con questa canzone a tutto volume, e lì capii che non era più mia».
In che cosa è più efficace delle parole?
«L’udito è il primo senso che si sviluppa nell’essere umano, già prima di nascere, e per forza ci dà un imprinting. La musica parla al lato più sottile di noi, circumnavigando l’intelletto, mentre le parole hanno bisogno della mente per essere comprese. In un film, lo spettatore vede scene, azioni, parole, ma con quale animo le deve guardare? La musica scrive una sceneggiatura interiore, si occupa di accordare l’occhio a una dimensione specifica, che ha a che fare con la parte spirituale ma tocca anche il corpo fisico».
Crede nel destino?
«Penso che il destino sia una cooperazione tra noi e qualcos’altro. Un grande gioco con molte sfaccettature e giocatori, in cui ognuno ha una sua parte. Il gioco cambia a seconda di come decidiamo di agire al suo interno».
È nato in una famiglia di muratori: come si è avvicinato alla musica?
«Mio padre, mio nonno, i miei zii, ogni sera si riunivano per suonare, cantare, ballare. Mio papà suonava la chitarra, scriveva poesie. Secondo Schopenhauer, il nostro destino è nei nostri desideri: io sto imparando a desiderare bene».
Come si impara a emozionare le persone?
«Emozionando prima sè stessi».
Quando compone c’è una cosa che le è essenziale?
«Lo studio dove lavoro, con tutte le mie attrezzature: un computer con quattro schermi, un pianoforte a coda e un pianoforte a muro. Soprattutto, però, devo avere la mia serenità, poter riflettere, ma non di testa: per riflettere intendo che devo collegarmi alle muse ed essere in grado di ricevere».
La sua musica infatti ha dentro di sé qualcosa di mistico.
«Mistico è tutto ciò che è autentico: bisogna togliere di mezzo l’ego, la paura, e arrivare a sentire chi siamo in quel punto dentro di noi che è a contatto con Dio. La calma e il respiro servono per togliere le distrazioni, poi però bisogna arrivare a un nucleo frenetico».
Ha sempre usato la tecnologia, e in questa serie di concerti ci sarà un computer che governa uno strumento dell’800.
«Mi piace che la tecnologia conviva con ciò che siamo: non penso ci sostituirà, ma può aiutarci, migliorare certe cose. Come se un pittore che prima aveva solo quattro colori all’improvviso ne avesse otto: può fare di più».
Come parte, a livello pratico, nel comporre una colonna sonora?
«La prima cosa è capire come il regista vuole raccontare la storia. Per L’ultimo bacio di Muccino era fondamentale che lo spettatore sentisse il tradimento come proprio, che uscisse dal cinema facendosi mille domande. La musica non doveva favorire un atteggiamento interiore ironico, ma di sconvolgimento. Un amico andò a vedere il film con la fidanzata, e mi raccontò che lei alla fine gli chiese: “Ma tu mi ami?”. Operazione riuscita. In Come te nessuno mai, Gabriele voleva che l’occupazione del liceo sembrasse la seconda guerra mondiale, e la scena in cui il protagonista fa l’amore fosse la cosa più importante di tutto l’universo».
Avete mai litigato con Muccino?
«Certo, e molto. Dovevo fare Come te nessuno mai e stavo facendo anche L’amante perduto di Faenza. Sapevo che si sarebbe arrabbiato e non glielo dissi. Lui telefonò a casa mia a Scordia e rispose la mia nipotina, l’unica in casa a non sapere di doverglielo tenere nascosto: al suo “C’è Paolo?” rispose che ero a lavorare per un altro film. Lui mi fece una sfuriata degna di un fidanzato tradito».
Che cosa le ha insegnato della vita Franco Battiato, con cui ha lavorato a lungo?
«A cercare di conoscere me stesso».
Come si fa?
«Continuando a cercare».
Lei voleva scrivere una tesi di laurea sull’incontro tra musica pop e musica colta, un amico le disse “Devi conoscere Battiato” : provò a contattarlo a lungo senza riuscirci, poi lo incontrò per caso in un negozio di strumenti musicali a Catania. Come andò?
«Tentai per sei mesi, poi abbandonai le speranze, convinto che non dovesse accadere. Qualche giorno dopo lo vidi per caso nel negozio. E lì capii: i desideri sono il destino. Me lo feci presentare dal negoziante, e poi gli feci un’intervista che durò tre giorni. Ho ancora le registrazioni, e in quelle cassettine c’è il trailer di quello che avremmo vissuto. Io avevo la voce da Paperino, lui era già lui, ma credo che abbia visto in me una fratellanza, capito che parlavo la sua lingua. E siamo diventati fratello maggiore e minore».
Qual era la vostra lingua?
«L’ironia, e l’interesse per la conoscenza. Un terzo dei libri che ho a casa li ho condivisi con Franco. Io avevo un assetto più cristiano, lui era legatissimo alla mistica sufi, e ci scambiavamo dimensioni. Per dieci anni abbiamo preso delle case al mare nello stesso posto – la sua era più grande —, ci piaceva fare le vacanze insieme. Ridevamo molto: anche quello è mistica».
Al mare dove?
«A Donnalucata, nell’estremo sud della Sicilia».
Ha detto che la musica deve scaturire da un’esigenza profonda: esigenza di cosa?
«Di esprimere un sentimento che a parole non si può dire».
Quando capisce che una melodia è finita?
«C’è sempre un momento, ma non lo so descrivere».
Il mondo dei compositori è cattivo? Si è mai sentito in competizione?
«Purtroppo sì, ma aspiro a sentirmici sempre meno».
Che cosa la spaventa del mondo di oggi?
«Non abbiamo la patente per quello che sta succedendo e che stiamo costruendo. Possediamo una tecnologia altissima e una saggezza povera».
La musica più diversa rispetto alla sua che ascolta e le piace?
«Il canto gregoriano e Mahmood».

La sua canzone preferita?
«Ne ho tante, a seconda dell’inquilino interiore che mi governa in quel momento».
Quello allegro che cosa mette su?
«Quizás, quizás, quizás di Osvaldo Farrés».
Su che piano del reale stanno le note musicali? Lei le vede?
«Stanno nella parte emotiva di me, non nella testa. Anche quando non sto componendo e sono per strada, la musica c’è: immagino e muovo le dita. Non è mai un calcolo, piuttosto una matematica spirituale».
Meglio fare l’amore con la musica o senza?
«Senza».