ilfattoquotidiano.it, 30 maggio 2025
L’eredità nucleare: miliardi spesi, inchieste e ritardi. Ecco le mappe della radioattività che resta da smaltire
Il Governo Meloni va avanti sul nucleare, come confermato il 27 maggio dalla stessa premier nel corso dell’incontro con Confindustria a Bologna. Ma a pagare per la pesante eredità dell’era dell’atomo finora sono stati cittadini e territori. Pesante come 39 milioni di gigabecquerel di radioattività misurati in 23 impianti, tra ex centrali, depositi principali e centri di ricerca dislocati in tutto il Paese. Il becquerel equivale a una disintegrazione radioattiva al secondo e, pur variando nel tempo, racconta molto di più rispetto ai metri cubi o alle tonnellate, perché può dire quanto un materiale è radioattivo e, pertanto, pericoloso. E rivela che in una sola barra di combustibile può esserci il doppio della radioattività presente in migliaia di metri cubi di altre scorie nucleari.
L’eredità del nucleare – La radioattività oggi presente in Italia, infatti, è dovuta principalmente alle barre di combustibile esaurito, ossia irraggiato e rimosso dal nocciolo del reattore: 31 milioni di gigabecquerel (GBq) su 39. Per questo preoccupano così tanto quelle che l’Italia ha spedito – a caro prezzo – all’estero e che rappresentano circa il 99% di tutto il combustibile irraggiato nelle quattro ex centrali italiane. Quasi tutta la radioattività made in Italy, che dovrebbe rientrare nel 2025, ma non si sa ancora dove collocare. Ma l’eredità del nucleare è anche il costo che continua a lievitare, per finanziare dismissioni, gestire i rifiuti radioattivi (anche quelli all’estero) dato che il deposito nazionale non è neppure in costruzione e pagare stipendi e spese di chi avrebbe dovuto fare tutto questo nei tempi previsti. Fino a pochi anni fa questo costo era coperto direttamente dalle bollette dei cittadini, oggi dai trasferimenti annui da parte dello Stato. E poi ci sono le storie dei siti, alcune delle quali hanno portato all’apertura di inchieste. Come quella di Rotondella dove, per esempio, è attesa entro giugno la decisione del gup di Potenza sulle richieste di rinvio a giudizio di 13 indagati, più la Sogin, per le violazioni nella gestione dei rifiuti radioattivi dell’Itrec, con lo sversamento di acque contaminate nella falda acquifera, nel fiume Sinni e nel mar Ionio. Tra le accuse, quella di disastro ambientale.
Più di 20 siti italiani, nessuno ritenuto idoneo al deposito – Oltre alle ex centrali di Caorso, Sessa Aurunca, Latina e Trino Vercellese, tra gli impianti principali dove sono presenti scorie ci sono l’Eurex e il deposito Avogadro di Saluggia (Vercelli), l’Itrec di Rotondella, gli impianti Plutonio, Nucleco e l’Opec, tutti a Casaccia (Roma), il sito di Bosco Marengo (Alessandria), il Centro comune di ricerche Euratom a Ispra (Varese). Poi ci sono altre strutture e, in totale, oltre 60 depositi temporanei. “Le quattro centrali dismesse in vent’anni di vita hanno prodotto appena 93 miliardi di kilowattora (solo nel 2024 il fotovoltaico in Italia ha prodotto circa 31,4 miliardi di kWh, ndr), eppure hanno lasciato una pesante eredità” racconta a ilfattoquotidiano.it Gian Piero Godio, vicepresidente per il Vercellese di Legambiente e di Pro Natura, nonché ex ricercatore Cnen-Enea all’Eurex. E spiega: “Nessuno degli oltre venti siti che oggi ospitano scorie è fra le 51 aree individuate dalla Sogin nella proposta di Carta nazionale delle aree idonee per il deposito nazionale di cui l’Italia deve dotarsi al più presto. Eppure alcuni di questi vengono citati a più riprese come destinazione possibile, sia per nuove centrali sia per il deposito”. Per il ritorno all’energia dell’atomo, Gian Luca Artizzu, amministratore delegato di Sogin, ha invece dichiarato che l’azienda mette a disposizione i siti delle vecchie centrali. Ma quanta radioattività è stata misurata in ciascuno sito? Per calcolarla basta sommare i dati forniti ogni anno dall’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione (Isin). A partire dagli oltre 32mila metri cubi di rifiuti radioattivi presenti oggi in Italia: più di 18mila ad attività molto bassa, 9.566 a bassa attività e circa 3.543 metri cubi a media attività. “Non ha molto senso parlare in generale di metri cubi di rifiuti, molti dei quali sono a vita media molto breve, meglio concentrandosi sulla loro radioattività, il famoso gigabecquerel, che corrisponde a un miliardo di disintegrazioni al secondo” spiega Gian Piero Godio.
I siti con la maggiore radioattività – Alla radioattività di oltre 32mila metri cubi di rifiuti radioattivi (circa 2,7 milioni di gigabecquerel), vanno aggiunte quella delle sorgenti dismesse (quasi 835mila GBq) e le stime dell’attivazione e della contaminazione dei materiali presenti in sistemi, componenti e strutture da smantellare (altri 3,9 milioni di GBq). “Infine, la fonte maggiore di radioattività, le barre di combustibile che si trovano in una manciata di siti. Sono soprattutto nel deposito Avogadro di Saluggia, all’Itrec di Rotondella e al CCr di Ispra” aggiunge Godio. In quasi 16 tonnellate di metallo pesante ci sono 31,6 milioni di gigabecquerel, su un totale di 39,3 milioni di GBq di radioattività presenti complessivamente in tutti i siti. Quelli dove c’è maggiore radioattività sono Saluggia (Vercelli) con 29,2 milioni di GBq tra il deposito di Avogadro (quasi 26 milioni) e l’impianto Eurex (3,2 milioni). Nel sito di Saluggia, in pratica, c’è il 75% della radioattività presente in Italia. Poi ci sono il Centro Comune di ricerca di Ispra (Varese) con 4,5 milioni di GBq, l’impianto Itrec di Rotondella (Matera) 1,7 milioni di GBq, il sito di Casaccia (Roma) con oltre 891mila GBq complessivi tra i vari impianti e Latina, con oltre 864mila GBq.
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Il deposito di Avogadro – La Sogin ha indicato il deposito Avogadro di Saluggia, tra Torino e Vercelli, come destinazione (dopo una ristrutturazione) per stoccare temporaneamente il combustibile riprocessato all’estero, fin tanto che non sarà pronto il deposito nazionale. “Solo che il sito di Saluggia e, quindi, anche il deposito di Avogadro, oggi proprietà di Stellantis, si trovano a monte di uno dei più grandi acquedotti del Piemonte, in un’area allagabile dalle esondazioni della Dora Baltea” spiega Godio. L’Isin ha ribadito per l’Avogadro “la necessità di procedere al programmato allontanamento del combustibile”. Si tratta di 63 barre da quasi 13 tonnellate (25,2 milioni di Gbq) provenienti dalla centrale del Garigliano, a Sessa Aurunca (Caserta) e di quella ad ossido di uranio della centrale di Trino (798mila GBq) stoccate in attesa del trasferimento perché siano riprocessate nell’impianto di La Hague, in Francia. “Trasferimento bloccato nel 2023 – spiega l’Isin – perché l’Italia non ha potuto fornire a Parigi garanzie sui tempi di realizzazione del Deposito Nazionale”. Costo del contratto per tre anni, fino a dicembre 2025, rinnovabile per due anni: quasi 15 milioni di euro.
La spada di Damocle – E il guaio più grosso, per cui si stanno cercando soluzioni (ovviamente a pagamento), deve arrivare proprio dall’estero. “Il Tavolo della Trasparenza, a cui partecipa anche Sogin non fornisce i dati sull’attività del combustibile che deve rientrare in 17 contenitori speciali, ossia cask alti più di 6 metri con un diametro di due metri e mezzo (4 si trovano nel centro nucleare inglese di Sellafield e 13 nel centro francese di La Hague), perché si tratta di dati coperti da clausole di confidenzialità commerciale” racconta Godio. Ma i becquerel sono quelli relativi a 1.680 e 235 tonnellate di combustibile proveniente dalle quattro ex centrali, già spedite perché fossero riprocessate rispettivamente nel Regno Unito e in Francia. Per avere un’idea, basti pensare che l’attività radioattiva calcolata per le sole 13 tonnellate di metalli pesanti di combustibile esaurito che la Francia ha bloccato a Saluggia è di quasi 26 milioni di Gbq.
L’impianto Eurex, una storia infinita – Sempre a Saluggia, quindi nello stesso sito costruito impropriamente in riva alla Dora Baltea, oltre al deposito Avogadro c’è anche l’Eurex, gestito prima da Cnen-Enea e, dal 2003, dalla Sogin. Dal 1970 al 1984 si sono svolte attività di ricerca sul riprocessamento del combustibile nucleare irraggiato. Il problema principale sono i rifiuti liquidi per i quali, come sottolineato dall’Isin nella sua ultima relazione al Parlamento “nonostante la rilevanza della radioattività e del rischio, i progetti non sono stati ancora realizzati e persistono significative incertezze sulla strategia da seguire”. E Godio ricorda: “Dopo l’alluvione del 2000, l’allora commissario dell’Enea e premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia parlò di una catastrofe planetaria sfiorata. La solidificazione di questi rifiuti fu chiesta già dal 1977, ma il termine è slittato a suon di ordinanze e decreti ministeriali”. In quarant’anni è accaduto di tutto. Una storia infinita quella che dovrebbe portare alla realizzazione del Cemex, l’impianto nel quale le scorie liquide saranno mescolate al cemento per solidificarle e renderle più gestibili. Lavori affidati ad Ansaldo Nucleare nel 2010 e bloccati nel 2011. Nel 2013, vinse la gara un gruppo di imprese, al timone Saipem (98 milioni di euro di commessa), ma nel 2017 Sogin stracciò il contratto. I lavori erano solo al 10% dell’obiettivo. Nel 2021, furono affidati a un altro gruppo (a capo Teorema Scarl) per 107 milioni, per poi essere bloccati due anni dopo con uno stato di avanzamento di poco più dell’1%. Poi ci sono stati il commissariamento della Sogin, a giugno 2022 e il bando di gara avviato ad aprile 2023, annullato a gennaio 2024 “per evidenti vizi sostanziali che avrebbero bloccato in fase esecutiva i lavori di completamento della struttura”. A fine 2024 è stata avviata la nuova gara, frutto di una revisione complessiva del progetto. Importo a base d’asta: 172,5 milioni di euro. Validità del contratto: 8 anni e mezzo.
Le inchieste – Altra storia è quella dell’Itrec di Rotondella, in zona Trisaia, gestito da Sogin solo dal 2006. E non si parla solo del progetto, in corso di realizzazione, per lo stoccaggio a secco (in due cask costati dieci milioni di euro) dei 64 elementi di combustibile irraggiato provenienti dalla centrale nucleare statunitense di Elk River, da anni custoditi nella piscina dell’impianto Itrec. A inizio anno, il Comune aveva vietato le coltivazioni all’aperto, blocco poi revocato, mentre resta il divieto di emungimento. Decisione legata all’inquinamento della falda acquifera rilevato dall’Arpab nelle zone vicine all’impianto Itrec e su cui ha indagato la direzione distrettuale antimafia. Nei giorni scorsi, il sindaco pro tempore Gianluca Palazzo, ha chiesto la convocazione urgente del tavolo della trasparenza, dopo l’ordinanza con cui la Provincia di Matera ha diffidato Eni Spa (per le attività storiche della controllata Combustibili Nucleari SpA) ed Enea, perché provvedano, per quanto di loro competenza, alle bonifiche poiché individuate come “soggetti responsabili dell’acclarato superamento delle concentrazioni delle soglie di contaminazione” nelle acque sotterranee. Nel frattempo, si è alle battute finali prima della decisione del gup di Potenza sulla richiesta di rinvio a giudizio per 13 indagati, più la Sogin, che gestisce i lavori di smantellamento dell’impianto. Secondo l’accusa, alcuni indagati sapevano già dal 2014 “della grave contaminazione da tricloroetilene e cromo esavalente nelle acque di falda sottostanti il sito, ma avrebbero effettuato le dovute comunicazioni agli enti competenti solo nel 2015”. E questo avrebbe portato allo sversamento nel mar Jonio, senza alcun trattamento “di 65mila metri cubi di acque di falda contaminate”. È la Procura della Repubblica di Roma, invece, ad indagare sulla contaminazione da americio di un operaio avvenuta il 21 novembre 2024 nell’impianto Plutonio del sito della Casaccia (Roma) al centro, tra l’altro, di un’interrogazione del Movimento 5 Stelle, che chiedeva chiarimenti sulla tempistica con cui Sogin ha notificato l’evento.
Quanto costa smantellare gli impianti – Sogin avrebbe dovuto, con un costo di 3,7 miliardi, mettere in sicurezza i rifiuti nucleari degli impianti entro il 2014 e smantellare le centrali entro il 2019. Piani non rispettati, come denunciato dalla Commissione Ecomafie e certificato dalla Corte di Conti. Nel 2020, il termine per la dismissione previsto dal ‘piano a vita intera’ è slittato al 2036. Costo previsto: 7,8 miliardi. Alla fine del 2020, stando alle delibere di Arera, Sogin era già costata 4 miliardi di euro (presi dalle bollette), più della metà andati a stipendi del personale, passato da 650 a 1.100 unità, auto e bonus dei dirigenti della società, poi commissariata nel 2022. Nei mesi scorsi, l’ad Gian Luca Artizzu ha anticipato che nel nuovo piano a vita intera l’orizzonte è al 2052, con investimenti complessivi stimati in 11,38 miliardi di euro (a partire dal 1999), di cui 5 miliardi già spesi. A quanto pare, il piano precedente non teneva conto di una serie di costi, anche quelli dovuti ai ritardi per l’entrata in servizio del deposito nazionale. “Un’operazione serietà – ha detto – che abbiamo ritenuto fortemente necessaria”.