La Lettura, 30 maggio 2025
Sulla riapertura dello Studiolo di Federico da Montefeltro nel Palazzo Ducale di Urbino
Staccare, per la prima volta, e poi calare dall’alto un intero soffitto ligneo del Quattrocento — operazione da brividi — perché i tarli lo stavano attaccando. Fatto.
Togliere una a una le meravigliose tarsie sulle pareti, mandando anche queste in un laboratorio per il trattamento in «anossia» (soffocamento dei parassiti). Fatto.
Provare a far ricombaciare, come in un complicato puzzle, pitture coeve che uno spregiudicato e potente cardinale, Antonio Barberini, aveva fatto segare nel 1631 per trasferirle nel suo palazzo romano (Quod non fecerunt Barbari, fecerunt Barberini, recita un antico motto). Fatto anche questo.
Due anni di studio e sei mesi di lavori — pulitura, restauro, riallestimento, nuova illuminazione — per ridare vita e una leggibilità quanto più vicina possibile all’originale tardo quattrocentesco a uno dei capolavori simbolo del Rinascimento, italiano e universale: lo Studiolo di Federico da Montefeltro (1422-1482), nel Palazzo Ducale di Urbino.
Il risultato finale sarà presentato il 30 maggio ma «la Lettura» ha potuto visitare in anteprima lo straordinario ambiente ligneo-pittorico-architettonico, a cantiere ancora in corso, in compagnia del direttore della Galleria nazionale delle Marche, Luigi Gallo: «Lo Studiolo — spiega — chiuso dal 4 novembre scorso, doveva essere oggetto di interventi di rifunzionalizzazione degli impianti, che rispecchiano la nostra volontà di offrire un Palazzo Ducale sempre più accessibile, in grado di rispondere alle moderne esigenze della museografia e di emozionare il visitatore».
E l’emozione è garantita per questo intervento che è stato definito con tre aggettivi chiave — «delicato, complesso, spettacolare» — e che in realtà è solo una parte di un più ampio programma di lavori che hanno interessato, e stanno ancora interessando, il piano nobile del plurisecolare edificio-museo, uno dei più belli d’Italia. «I finanziamenti del Pnrr hanno permesso di affrontare il necessario rinnovo degli impianti obsoleti — aggiunge Gallo — e con l’occasione, visto anche il considerevole coinvolgimento della struttura, si è proceduto a un’operazione accurata di restauro e studio dell’edificio, nonché al completo riallestimento delle opere. Questa operazione sta coinvolgendo progressivamente tutti gli spazi: prima l’ala orientale con l’Appartamento della Jole, poi quella occidentale con le stanze dette degli Ospiti e ora l’Appartamento del Duca con il famosissimo Studiolo».
Tutti gli elementi che compongono l’opera — realizzata tra il 1473 e il 1476 e in cui si riflettono interessi intellettuali, gusti e stili di vita del duca Federico e della sua corte — sono stati restaurati: il soffitto ligneo con gli stemmi, le tarsie e i celebri ritratti degli «uomini illustri del passato e del presente», una sorta di pantheon con 28 effigiati — da Dante a Petrarca, da Platone a Sant’Agostino — disposti su due registri, opera dei pittori Giusto di Gand (il fiammingo Joos van Wassenhove, 1410-1480) e Pedro Berruguete (1450-1504), spagnolo.
Di 28 dipinti, però, in situ ne sono rimasti solo 14, la metà. E qui la storia si fa tanto complessa quanto affascinante. Per capirne gli esiti bisogna risalire all’anno 1631 quando, alla morte del ultimo duca d’Urbino, tutte e 28 le tavole furono letteralmente segate per farne dei quadri singoli (erano riuniti a quattro a quattro su sette superfici). Staccate dal loro ambiente, furono poi trasferite a Roma nelle collezioni di Papa Urbano VIII tramite il nipote, il cardinale Antonio. L’intera serie resterà nelle collezioni di famiglia fino al 1812, quando il casato ne cederà la metà (14) al mercante, collezionista e marchese Giampietro Campana. Il quale a sua volta rivenderà i dipinti a Napoleone III, che li destinerà al Louvre, dove ancora oggi si trovano.
Cosa succede invece alle 14 tavole originali restate in casa Barberini? Nel 1934 gli eredi fanno un accordo con il governo di Benito Mussolini. Allo Stato italiano vanno il Palazzo di Roma, oggi museo, e la metà dei ritratti che fino al 1631 erano nello Studiolo di Urbino, oltre ai due quadri che di fatto segnano l’atto di nascita della Galleria nazionale di Arte antica: la Fornarina di Raffaello e il presunto Ritratto di Beatrice Cenci allora attribuito a Guido Reni (ma che di Reni, si scoprirà, non è). In cambio il duce fa togliere, con tanto di comunicazione sulla «Gazzetta Ufficiale», il vincolo fidecommissario alle preziose raccolte che dunque i Barberini potranno vendere all’estero (l’Italia perderà Caravaggio, Poussin e tanti altri capolavori).
Ma almeno 14 effigiati su 28 tornano a Urbino dopo 303 anni, orfani però degli altri, rimasti in terra di Francia. Il ritorno nelle stanze ducali non coincide con un immediato ricollocamento nello Studiolo, che nel frattempo — privo per tre secoli della sua parte pittorica — si è notevolmente trasformato. I quadri, sempre segati (lo sono ancora, irreversibilmente) verranno ricollocati nel loro ambiente d’origine solo nel 1977, e nel 1983 le 14 opere mancanti saranno sostituite con «copie a seppia», stampe fotografiche in bianco e nero con fondo giallastro. L’idea di allora, in linea con il gusto degli allestimenti anni Ottanta, era quella di sottolinearne l’assenza, da cui il contrasto — impossibile da non notare per il visitatore — con le cromie originali. Successivamente, con un approccio più «illusorio», subentreranno copie contemporanee «a colori», di valore non eccelso e rimaste al loro posto fino a pochi mesi fa. Ora — ed è una delle novità dei lavori di queste ore — grazie agli sviluppi della tecnologia il Louvre ha fornito fotografie ad altissima risoluzione che successivamente sono state stampate su legno. Anche tutti i 14 volti di Parigi tornano dunque a casa, quasi in originale (la prima réunion, ma limitata ai temi di una mostra temporanea, fu nel 2015).
E per tutti e 24 gli effigiati — civili ed ecclesiastici, cristiani e pagani, originali e copie — torna, grazie ai lavori in dirittura d’arrivo, anche un filologico punto di vista «ribassato», fino a 60 centimetri, con riallineamento fra i dipinti e le tarsie sotto. È uno degli effetti dovuti ai restauri appena conclusi, conseguenza dell’eliminazione di molte superfetazioni ottocentesche, quando lo Studiolo era stato in buona parte trasformato per l’assenza delle pitture, poi riattaccate su «nuovi» supporti. È sparito, ad esempio, un cornicione posticcio del XIX secolo; via anche alcuni centimetri di spessore in eccesso del vecchio intonaco; tutti interventi che di fatto hanno «spinto» le tavole verso il basso e verso l’interno, dunque meno sporgenti.
Al raggiungimento dell’obiettivo — restituire quanto più possibile l’unicità di un ambiente straordinario, sintesi di tante arti — ha contribuito molto l’interpretazione degli elementi retrostanti le tarsie, staccate per il restauro. Le linee sinopiali rosse, ad esempio, segnali impressi sul retro, direttamente sui mattoni del XV secolo, hanno fatto da guida per il rimontaggio degli incastri seguendo la facies quattrocentesca. Si è anche realizzato un nuovo impianto illuminotecnico, che riporta nello Studiolo una tecnologia a imitazione della «luce del giorno». Per realizzarne l’effetto ci si è serviti dello strombo della (fu) finestra, utilizzato per nascondere le apparecchiature. Dal 30 maggio sarà così possibile ammirare la sala con luce stabile, diffusa, evitando riflessi e specchiature dovute all’illuminazione dal basso.
Il ritorno alle origini (o quasi) per lo Studiolo rappresenta solo un segmento dei ciclopici lavori eseguiti nel Palazzo (18 mila metri quadrati e 18 metri di altezza per molti soffitti), condotti sotto la guida dell’architetto Francesco Primari. Lavori che soprattutto grazie alle ricerche di Giovanni Russo, funzionario storico dell’arte del museo, hanno rivelato anche importanti novità relative alla storia dell’Appartamento del Duca, simbolo e summa del potere, della ricchezza e della raffinatezza della corte urbinate. Queste novità, inserite nel percorso, riguardano in particolare quelli che sei secoli fa erano comfort più unici che rari: la latrina del Duca, uno spazio dedicato ai bisogni corporei che ora è stato riportato a una lettura completa grazie anche allo studio del trattato quattrocentesco dell’architetto Francesco di Giorgio Martini, artefice del Palazzo, il quale congegnò per Federico pionieristici sistemi di smaltimento e areazione. O, nella camera da letto del nobiluomo, la scoperta e rimontaggio di un fastoso lavabo decorato, di circa dieci metri di altezza. Smurato nell’Ottocento quando il palazzo divenne sede della Prefettura, nel corso del tempo il lavabo era stato rimontato in due diversi saloni, parte come camino, parte come gigantesca nicchia-cornice. Documenti d’archivio, un antico rilievo e un acquarello di Romolo Liverani (1809-1872) hanno aiutato a ricomporlo e riportarlo dov’era.