Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  maggio 29 Giovedì calendario

Bianchi? Mi chiamo White

«Molti italiani hanno un certo pudore direi quasi vergogna a confessare la loro nazionalità; traducono perfino il cognome (ad esempio: Verdi diventa Green, Bianchi diventa White) e questo sentimento, per quanto poco lodevole, è l’indice non dubbio di un desiderio di entrare a far parte della massa locale dei cittadini, come hanno fatto gli olandesi o gli svedesi e soprattutto i tedeschi». Lo scrive un secolo fa l’economista Torquato Carlo Giannini sul «Corriere delle assicurazioni marittimo e di emigrazione», ripreso dall’editrice MnM in Italiani agli Stati Uniti.
È il 1925. E anche il nonno del futuro papa Leone XIV, nato a Milazzo nel 1876 come Salvatore Giovanni Riggitano, sta lasciando il vecchio nome per il nuovo. Sbarcato nel 1903 a New York e raggiunta la cittadina di Quincy, Illinois, dove la sorella maggiore viveva col marito Vincenzo Centi, iscritto subito al St. Francis Solanus College, molto intraprendente, nel 1917 è già così noto come docente di lingue da finire sul giornale locale, il «Quincy Daily Herald», col titolo Riggitano in triangle (il triangolo di Riggitano) perché Daisy Hughes, la moglie sposata nel 1914, l’ha denunciato per adulterio con una certa Suzanne Louise Marie Fontaine. Come vada a finire non è chiaro (non salteranno fuori le carte né del divorzio né del nuovo matrimonio) ma certo il figlio della nuova coppia, che sarà padre del futuro Papa, è registrato all’anagrafe come Louis Marius Prevost (cognome della famiglia materna di Suzanne, pare). Cognome che verrà usato poi per cambiare intestazione nel 1934 alla scuola privata di lingue aperta a Chicago (Riggitano Prevost School of Languages) e infine nell’Alien Registration Form del 1940 dove il nostro messinese si dichiara ufficialmente «John Riggitano Prevost, entrato negli Usa come Salvatore Giovanni Riggitano Alioto», cognome della madre.
Un caso tra decine o forse centinaia di migliaia. Scegliere il proprio nome, negli States, è sempre stato storicamente più facile che in Europa. Non bastasse, la trascrizione dei dati anagrafici in troppe lingue diverse nella bolgia di Ellis Island («Eravamo semplicemente incapaci di farci strada in mezzo alla folla accalcata» e «gridavamo a squarciagola i nomi degli stranieri», scriverà nelle sue memorie Eduardo Corsi, direttore nel 1931 dopo esservi arrivato nel 1906) era così disastrosa che, raccontano in Italiani d’America Mario Avagliano e Marco Palmieri, i tre figli del calabrese Rocco Muzzopapa, che da analfabeta «non può confermare l’esatta trascrizione», diventano americani con tre cognomi diversi: Frank Monsipapa, Joseph Munzipapa e Rosario Muzzipapa. Figurarsi se le autorità americane potevano badare a dettagli tipo la storpiatura di Paolo «Scozzese» (il nonno di Martin «Scorsese») o tantissimi casi simili. Il caos. Al punto che Francis Ford Coppola narra nel Padrino che Vito Corleone finisce per chiamarsi così perché il funzionario yankee che interroga in inglese il piccolo immigrato siculo a Ellis Island, confonde il cognome col paese da cui era partito.
In larga maggioranza però i nostri nonni cambiarono nome per arginare pesanti pregiudizi anti-italiani. Basti ricordare il caso di Edith Labue (chissà qual era il vero cognome: Lo Bue?) che nel 1922 fu al centro d’un processo in Alabama con un nero di nome Jim Rollins, accusato di miscegenation (mescolanza di razze), un reato cancellato in più Stati solo nel ’67 e sulla carta commesso pure dai genitori di Barack Obama. «Non era bianca: era italiana», disse la difesa. E la Corte, spiega un saggio di Bénédicte Deschamps, gli diede ragione: essendo la donna siciliana, «non si poteva dedurre assolutamente che ella fosse bianca, né che fosse lei stessa negra o discendente da un negro».

La «registration card» di Salvatore Giovanni Riggitano
Un caso limite? Forse. Ma rende l’idea dell’aria che tirava quando il settimanale «Judge» sparava vignette con lo Zio Sam corrucciato in riva al mare alla vista di topi di fogna in arrivo «dai bassifondi dell’Europa» (testuale) coi berrettini che dicevano: «anarchist», «socialist», «mafia». O la «North American Revue» pubblicava articoli «scientifici» del professor Arthur Sweeny contro i nostri nonni: «Non abbiamo spazio in questo Paese per “l’uomo con la zappa”, sporco della terra che scava e guidato da una mente minimamente superiore a quella del bue, di cui è fratello».
C’è poi da stupirsi se, come dice il dossier Please call me John (per favore chiamami John) di Pedro Carneiro, Sokbae Lee e Hugo Reis, «tra il 1900 e il 1930 circa il 77% degli immigrati maschi negli Stati Uniti si era dato un nome americano» contro il bassissimo «1%» di italiani al loro arrivo a Ellis Island? Se tutti ma proprio tutti erano convinti che un nome «americano» (tre su tutti: John, William e George) aiutava sul posto di lavoro? Se Concetta Franconero scelse il nome di Connie Francis col quale avrebbe venduto oltre 100 milioni di dischi? Se Ermes Borgnino si presentò a Hollywood come Ernest Borgnine? Se Francesco Borzaga vinse il primissimo Oscar alla regia con il nome di Frank Borzage? Se l’immensa Anna Maria Italiano, che portava come marchio quell’identità nostrana, sfondò nel cinema ribattezzandosi Anne Bancroft? E così decine di altri divi dal comico Don Ameche (Dominic Amici) al cantante Dean Martin, pseudonimo di Dino Crocetti?
Certo, c’era chi poteva prendersi il lusso di tenersi il nome originale. Come Lorenzo Da Ponte: perché americanizzarsi se sei il librettista di Wolfgang Amadeus Mozart? O se sei un conte eroe di guerra sia italico sia statunitense e primo direttore del Metropolitan Museum come Luigi Palma di Cesnola? O il più ricco banchiere americano come Amadeo Giannini? Ma darsi un american name, prima che Fiorello La Guardia e Angelo Rossi diventassero sindaci a New York e San Francisco, era una formidabile scorciatoia di integrazione. Tanto più se dalla patria lontana arrivavano richiami alla fedeltà fascista che affondavano il coltello nella piaga della nostalgia. Lo spiegò meglio di tutti proprio una grande italo-americana, Amy Bernardy: «L’italiano emigra in America. Lo volete italiano? Sarà infelice. Lo volete felice? Sarà americano. Cioè l’Italia dovrebbe donare all’America il suo cittadino, il suo lavoratore, il suo emigrante, in dono assoluto e senza restrizione, tutto intero, qualità e difetti, energie e problemi, attività e speranze, in modo che non si volti più indietro a guardare l’Italia».
Non si voltò più indietro, ad esempio, Giovanni Crisostomo Martino. Era un trovatello quattordicenne, a Sala Consilina, nel Salernitano, quando nel 1866 s’aggregò come mascotte a Garibaldi e, finito a cercar fortuna negli States, s’arruolò come trombettiere, per avere la cittadinanza, nel VII Cavalleggeri del generale Custer. Finendo diritto nell’inferno della battaglia di Little Big Horn. Spedito all’ultimo istante a invocar soccorsi riuscì miracolosamente a sgusciar via tra i nugoli di pellirosse di Cavallo Pazzo e Toro Seduto e, sia pure troppo tardi, a dare l’allarme. Si guadagnò così, coi gradi di sergente, una fama che spinse per anni storici e giornalisti ad andare a intervistarlo. Ma soprattutto un nome nuovo: John Martin.