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 2025  maggio 29 Giovedì calendario

Perché la cultura del nostro Paese è così gentiliana

Il pensiero e l’insegnamento di Giovanni Gentile hanno avuto un’influenza enorme sulla filosofia italiana: di Gentile sono stati allievi alcuni dei più importanti pensatori italiani – solo per fare alcuni nomi, da Omodeo a Garin, da Spirito a Luporini –; e di assoluto rilievo è stata la sua attività di organizzatore di cultura, che lo ha visto presiedere, dirigere (o fondare), oltre a parecchie riviste filosofiche, l’Enciclopedia Italiana, la Scuola Normale di Pisa, l’Accademia d’Italia (anche qui, un elenco ultra-selezionato). Sopra ogni altra cosa, va ricordata la sua riforma della scuola, che egli varò come ministro della Pubblica istruzione, carica che ricoprì dal 1922 al 1924 (quando si dimise in seguito all’assassinio di Matteotti). Una riforma elaborata anche da Benedetto Croce, che lo aveva preceduto di pochi anni nella stessa poltrona, e che, nonostante molti cambiamenti intervenuti, ha sviluppato i suoi effetti – quasi tutti positivi per parecchi decenni.
Un’impressionante manifestazione di come si costruisce un’egemonia culturale; non con le ripicche né con la violenza, ma sviluppando con coerenza sia il pensiero sia l’azione a partire da un punto di vista specifico, con l’obiettivo diprodurre un ordine, un sistema di istituzioni, capace di dare spazio non solo alla parte egemone, ma a tutte (o a molte) delle realtà e delle posizioni coinvolte. Del resto, anche prima del fascismo il suo pensiero aveva suscitato fermenti ed entusiasmi in ambiti diversi: basti pensare all’interesse spasmodicocon cui Gramsci e Togliatti, da giovani, leggevano i testi di Gentile molti dei più importanti furono pubblicati tra la fine del XIX secolo e gli anni della Grande guerra. In quel pensiero, e in quello dell’allora amico e sodale Benedetto Croce, convergevano, in strutture intellettuali robustissime e documentatissime,esigenze reali dellacultura del tempo.
Si trattava di superare i dogmatismi, le rigidità, le angustie tanto del positivismo quanto del socialismo della Seconda internazionale; di operare una rivoluzione – intellettuale e pratica – che rimettesse in gioco energie e ardimenti, chedesse un senso rinnovato agli studi e alla stessa vita sociale. Il neo-idealismo fu questo, e così fu inteso: come rivoluzione che teneva insieme teoria e prassi, che riportava ogni pensiero e ogni azione all’attività sovrana e incoercibile, alla libertà dello spirito. E che era quindi una risposta a una crisiintellettuale e morale della cultura italiana ed europea (non l’unica: al rinnovato vigore del pensiero idealistico si affiancava l’impeto del pensiero negativo, originato da Nietzsche).
È da una riflessione su Marx che ha inizio la fase matura di Gentile: un Marx dialettico, fautore di un nesso forte fra teoria e prassi (il parallelo interesse di Croce per Marx è di tutt’altro genere, quasi opposto). Ma Gentile non si ferma alla interpretazione filosofica di Marx: il pensiero che è anche azione è per lui rinvenibile soprattutto in una tradizione italiana esterna al razionalismo moderno, cartesiano, individualistico e illuministico, cioè in autori come Telesio, Bruno, Campanella, Vico, Mazzini, Gioberti. Una linea che egli sviluppa attraversando anche la grande filosofia tedesca, in particolare Fichte e Hegel, e a cui dà un compimento originale e per certi versi estremo nella filosofia dell’ “atto puro”.
Con “atto” Gentile intende l’identità dinamica di essere e pensiero, di un pensiero che è Soggetto (non empirico, ma trascendentale ) e che non ha presupposti metafisici né vincoli oggettivi strutturali né norme estrinseche da rispettare; un pensiero che riporta ogni esteriorità e ogni molteplicità dentro la propria unità, che travolge ogni ostacolo e che intende l’altro da sé, il pensato, il fatto, come propria interna determinazione. Nulla può essere pensato o avere esistenza prima o fuori dell’atto, neppure la storia, neppure le categorie universali della metafisica, neppure l’Assoluto: è l’atto a essere assoluto, sciolto da ogni vincolo. Il pensiero è attività incessante, che non rispetta alcuna autorità: è una “rivoluzione permanente”. Dunque, un idealismo volontaristico e immanentistico, nel quale Del Noce ha visto il germe intellettuale del gramscismo – nonostante l’inimicizia sorta ben presto fra attualismo e comunismo in quanto entrambi ambivano al monopolio del rapporto teoria-prassi.
Su queste basi Gentile ha interpretato la storia d’Italia, come una successione di rivoluzioni attraverso le quali la nazione italiana ha preso coscienza di sé: Rinascimento, Risorgimento, Grande guerra, fascismo. Rivoluzioni che sono sempre state la lotta della «grande Italia», spesso vivente nelle coscienze di pochi, e la «piccola Italia», infeconda e miserabile, che «non crede a nulla e ride di tutto»; l’Italia generosa contro l’Italia del «particulare».
In quest’ottica il fascismo – nel 1925 scrisse ilManifesto degli intellettuali fascisti – è per lui la prosecuzione del Risorgimento, è la distruzione necessariamente violenta di ciò che di vecchio c’è nella società, nella politica, nella mentalità italiana, ed è anche l’edificazione di un ordine nuovo. Un ordine di «vera libertà» e di «vera democrazia» oltre la logica individualistica che contrappone soggetto e oggetto, individuo e Stato –, perché incorpora le ragioni dell’individuo nello Stato (etico) e le ragioni dello Stato nell’interiorità dell’individuo.
Il fascismo non fu gentiliano, o lo fu in modesta misura, ma Gentile fu totalmente fascista, pensando così di portare a compimento la libertà moderna. E fu fascista, cioè di parte, volendo essere al contempo sopra le parti: quella sua parte coincideva infatti, per lui, con ciò che gli stava più a cuore, il rinnovamento e il potenziamento della vita morale e storica dell’intera nazione. Si vede qui il rischio interno a questo pensiero: di essere tanto compatto e coerente da divenire dogmatico, astratto, e quindi ineffettuale. Se infatti ogni contingenza e ogni fatto sono riconducibili all’atto pensante, si perdono i criteri per giudicare e distinguere: così il pensiero si trova in balia di quella stessa storia che credeva di riportare entro di sé, oppure, il che è lo stesso, risulta drammaticamente estraneo alla storia e alle sue vicende. L’uccisione di Gentile a opera di partigiani nasce da qui: Gentile infatti teorizzò sempre, dal 1943 in poi, le ragioni della concordia (perfino più delle ragioni della vittoria), affermando l’unicità della nazione sopra le parti in lotta. E invece in quel momento la logica dell’Uno non poteva imporsi sulla logica del Due, del conflitto mortale. Una morte che è tanto dolorosamente tragica e umanamente da rimpiangere quanto è simbolica, perché segna la fine di un pensiero non più “attuale”, non più all’altezza del tempo e delle sue stesse radicali pretese.
La filosofia di Gentile è irripetibile e datata – le sue istanze di lotta all’alienazione si sono espresse, dopo di lui, per vie ben diverse. Il suo nazionalismo è oggi improponibile. Ma la sua opera di rinnovamento scientifico e di organizzazione culturale e didattica è un esempio di egemonia capace di sopravvivere a sé stessa, perché è stata a lungo patrimonio comune della nazione, nel segno, oggi non facilmente imitabile, del rigore scientifico e della libertà dello spirito.