La Stampa, 29 maggio 2025
La rivoluzione Neuralink e i troppi lati oscuri
È il 30 gennaio 2024 quando Elon Musk annuncia al mondo il primo impianto cerebrale umano realizzato dalla sua società Neuralink, fondata nel 2016 con un investimento di circa cento milioni di euro. L’operazione è complessa: una craniectomia laser per rimuovere una porzione di cranio grande quanto una moneta da due euro, seguita dal lavoro automatizzato di un robot che connette al cervello 1.024 elettrodi collegati a un microchip.
Un dispositivo impiantato, a detta dell’azienda, per rilevare e tradurre l’attività neuronale in comandi diretti a dispositivi esterni: computer, tastiere, esoscheletri.
L’obiettivo dichiarato è costruire strumenti per la comunicazione diretta tra cervello umano e macchine. Questo lo slogan dell’azienda: «Ogni giorno costruiamo strumenti migliori per comunicare con il cervello». Una missione che promette di cambiare radicalmente il modo in cui interagiamo con il mondo, in particolare per le persone colpite da gravi disabilità motorie o comunicative.
Nel tempo la società recluta decine di ingegneri e neuroscienziati, crescendo da 90 a 400 dipendenti in tre anni. Nel 2023 ottiene dalla Food and Drug Administration l’autorizzazione alla sperimentazione umana, iniziando il reclutamento di volontari tetraplegici per test avanzati nei laboratori di Fremont, in California. A meno di un anno di distanza, il primo impianto è realtà.
Non si tratta di una tecnologia nata dal nulla. I primi esperimenti di comunicazione cervello-macchina risalgono agli anni Sessanta ed erano condotti sulle scimmie, ma è solo nei primi anni Settanta, quando i computer iniziano a diffondersi, che compare il termine brain-computer interface.
Oggi, grazie all’integrazione tra intelligenza artificiale, microelettronica e neurochirurgia, queste interfacce sono diventate strumenti concreti. Il salto qualitativo è evidente, e il passo successivo è già in corso: integrare questi dispositivi in modo stabile, permanente e potenzialmente su larga scala.
Le applicazioni terapeutiche sono potenzialmente rivoluzionarie e i benefici per persone con gravi disabilità motorie o di comunicazione, potrebbero essere enormi.
Resta il fatto, però, che le implicazioni vanno molto oltre le applicazioni mediche e assumono contorni inquietanti. Accedere al cervello può significare interferire con pensieri e decisioni. Un impianto che riceve segnali può, in linea teorica, anche inviarli. E una tecnologia nata per liberare potrebbe diventare – se gestita in modo irresponsabile o opaco – uno strumento di sorveglianza o di manipolazione.
È proprio l’opacità a rappresentare oggi il problema più grave e troppo spesso sottovalutato. Di Starlink, altra creatura di Musk, attiva nel settore aerospaziale, sappiamo quasi tutto: progetti, satelliti, coperture. Di Neuralink, invece, non sappiamo nulla di verificabile.
Il primo trial clinico non è stato registrato su clinicaltrials.gov, l’archivio pubblico dei protocolli sperimentali accessibile a tutti, come fa notare il Professore Gianfranco Pacchioni, nell’illuminante saggio “Scienza chiara, scienza oscura” (Il Mulino). Nessun dettaglio sui criteri adottati, nessuna pubblicazione dei risultati, nessuna possibilità di verifica indipendente. Un’anomalia enorme.
La comunità scientifica internazionale ha sollevato dure critiche: il difetto di trasparenza contraddice i principi fondamentali della ricerca, basati su condivisione e revisione tra pari. Qui invece tutto è opaco. Disponiamo solo di un articolo firmato nel 2019 dallo stesso Musk, senza nessun coautore: la descrizione di un dispositivo con migliaia di elettrodi capaci di inviare segnali simultanei. Da allora, silenzio. Un silenzio che protegge interessi industriali, ma rende impossibile una discussione pubblica e aperta sui rischi e sulle finalità.
E i rischi ci sono. Non solo per chi si sottopone all’impianto – sugli effetti collaterali neurologici si sa pochissimo, a parte le vaghe denunce di ex dipendenti su danni cerebrali per gli animali da laboratorio. Ma anche per la società nel suo complesso. Neuralink prevede di impiantare oltre 20.000 dispositivi entro il 2030, a un costo di 40.000 dollari l’uno. È legittimo domandarsi chi potrà permetterselo. La prospettiva è una radicale disuguaglianza nell’accesso al potenziamento cognitivo: tra chi sarà in grado di amplificare la propria memoria, concentrazione, velocità di pensiero, e chi ne resterà escluso. Ma non è questa l’unica minaccia. È l’idea stessa di democrazia a essere messa in discussione quando strumenti così potenti sono controllati da privati senza alcun obbligo di trasparenza o condivisione.
Il progetto stesso di Neuralink nasce, secondo Musk, come risposta all’avanzata dell’intelligenza artificiale. Già nel 2015, insieme ad altri ricercatori, firmava un appello per limitarne i rischi, proponendo come soluzione di fondere l’intelligenza umana con quella artificiale. Creare una nuova entità, potenziata, ibrida, dotata di capacità superiori. Una forma di transumano.
L’idea è affascinante, ma inquietante. Perché tutto questo – gli impianti, i dati, le connessioni – è sviluppato da un’azienda privata, senza obblighi di accountability, senza discussione pubblica sugli scopi. Siamo sicuri che l’obiettivo sia soltanto curare?
Nel frattempo, mentre il mondo si affaccia su questa soglia evolutiva, l’Italia taglia gli investimenti in ricerca scientifica: -8% al fondo finanziamento ordinario nel 2025. Nello stesso anno, le spese militari raggiungono i 32 miliardi, con un incremento del 60% rispetto al 2016. Un record storico. In un’epoca in cui la competizione globale si gioca sulla conoscenza, sulle tecnologie, sull’etica delle scelte, possiamo davvero pensare che la nostra sicurezza dipenda da quante armi possediamo? Davvero immaginiamo che il futuro si protegga con le bombe più che con i laboratori?
Un paese che destina così poche risorse all’istruzione e alla ricerca, potrà mai sedersi ai tavoli dove si decide il futuro? O dovrà accontentarsi di ricevere istruzioni elaborate da altri, non necessariamente umani? —