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 2025  maggio 29 Giovedì calendario

Io, mio padre e la cena con Kissinger

Io al Quirinale da mio padre? Una sola volta». E quando? «Quando fu eletto e ci fu un piccolo ricevimento. È stata la mia unica “visita” durante il settennato». Per il resto, la storia di Anna Maria Cossiga, classe ’61, saggista e antropologa e analista geopolitica, esperta di storia e cultura ebraica e del conflitto israelo-arabo-palestinese, con il papà ex presidente della Repubblica è una storia di riservatezza, di messaggi a volte criptati, quasi in codice, di quella capacità che solo alcuni hanno di non farsi abbagliare dalle luci della ribalta. Suo padre, del resto, almeno fino all’epoca da “picconatore”, era così. La madre, cioè la ex moglie di Cossiga, la signora Giuseppa Sigurani, lo era anche di più. È una delle “presidentesse” raccontate nel libro di Anna Tonelli, che ripercorre undici donne, mogli o figlie dei nostri Capi di Stato. Di lei c’è solo una foto, giovanissima, pubblicata dalla Nuova Sardegna e ripresa da tutti gli altri. E la figlia Anna Maria, in premessa, lo dice: “Va bene l’intervista, ma non voglio parlare di mia madre”.
Assolutamente. Parliamo di suo padre però. Qual è la prima cosa che le viene in mente di quegli anni?
«Il dover vivere sotto scorta. Un incubo, soprattutto durante il periodo Moro. Ero giovane, la presi male. Una ragazza a quell’età, io avevo 17 anni, vuole uscire, andare in centro, passare i sabato pomeriggi o sera come i propri coetanei».
Lei invece che faceva?
«Ho sempre amato molto leggere e per fortuna con mio fratello ho sempre avuto un ottimo rapporto. Ebbi di nuovo la scorta quando mio padre era presidente del Consiglio, poi Presidente della Repubblica; la affrontai meglio».
Che altri aneddoti di quel periodo?
«Due in particolare. Nel ’91, quando scoppiò la Guerra del Golfo, io ero a New York, lavoravo all’Onu. Alla televisione c’erano le immagini dei bombardamenti, delle maschere a gas in Israele. Mio padre mi telefonò per dirmi: “Guarda che è scoppiata la guerra”. Mio padre si preoccupava che sua figlia sapesse cosa stava accadendo. In fondo ero a New York e gli Stati Uniti erano direttamente coinvolti».
L’altro?
«Decisi di rientrare in Italia e mio padre mi disse: “Figlia mia, ci saranno delle persone che ti faranno da accompagnatori, ma neanche te ne accorgerai”. Li individuai subito perché erano andati a fare shopping in un negozio di articoli elettronici sulla 47esima strada. Li andai anche a salutare e ringraziare. Anni dopo, mettendo a posto le carte di mio padre, scoprii che aveva chiamato il mio rientro “operazione Biancaneve”. Che poi io, Biancaneve, non lo sono mai stata...».
Conoscendo un po’ le sue simpatie politiche, se ci passa la battuta, magari era più Cappuccetto Rosso...
«Ecco sì, questa mi piace. La posso riutilizzare?».
Anche D’Alema una volta le disse che era troppo a sinistra.
«Eravamo a braccetto sotto Palazzo Giustiniani, mio padre mi presentò: “È mia figlia, vota per Rifondazione Comunista”. E D’Alema: “Bé sia più moderata, voti per noi”. Scherzando mio padre mi chiamava bolscevica, miscredente».
Cossiga considerava l’operazione D’Alema a Palazzo Chigi il suo capolavoro politico...
«Era innamorato di D’Alema, come persona. E per me fu un periodo in cui imparai molte cose sulla politica. Così come quando lavorai con lui, senatore a vita come Presidente emerito. Mi ricordo che scriveva molti lanci per le agenzie, in una calligrafia sumerica con un pennarello nero, che mandava da casa a noi in ufficio via fax. Non aveva peli sulla lingua e noi, io e il prefetto Mosino che era il capostaff, cercavamo di contenerlo. Io gli dicevo: “Ba’ (diminutivo di Babbo), non hai esagerato?”. E lui: “Troppo duro? Va bene correggo”. Noi andavamo via da casa sua, il tempo di arrivare in ufficio e già aveva mandato il testo come lo aveva scritto all’inizio».
E poi gli indipendentisti baschi, Mambro e Fioravanti. Ne ha viste di cose, in quegli anni.
«Aveva una passione per l’Irlanda, forse perché la battaglia per l’indipendenza di Dublino e di Belfast gli ricordava, pur non essendo un indipendentista, il sogno dei sardi. E una volta, in un hotel a San Sebastian, mi disse di andare nell’altra stanza. Stava ricevendo dei baschi, forse dell’Eta... Ma mi fece anche conoscere Kissinger».
Ci può raccontare come andò?
«Ero a New York e mio padre, che non c’era, mi organizzò una cena ristrettissima con Kissinger e poche persone nell’Upper East Side. Lui, Kissinger, era un uomo simpaticissimo, che parlava inglese con questo forte accento tedesco, io avevo 27-28 anni, ero molto più timida di ora. Mi ritrovai seduta vicino a una signora che mi chiese di cosa mi occupassi: “Faccio l’antropologa. E lei?”. “Mah, ho alcuni pozzi di petrolio in Texas”, mi rispose».
Del sequestro Moro si è detto e scritto tanto.
«Moro era il suo maestro, per lui fu una vicenda straziante. Ripeteva spesso “l’ho ucciso io"».
Ma durante il rapimento e poi il sequestro si confrontava con lei e suo fratello, con sua madre?
«Con noi mai, eravamo troppo piccoli. Con mia madre non lo so, hanno sempre cercato di farci stare tranquilli. Io sentii mio padre parlare di Moro molto dopo, a più di 30 anni».
Che padre è stato, suo padre?
«Da ragazzini molto severo, poi ho scoperto una persona divertente e simpatica. Il suo diventare picconatore mi ha stupefatta, abituata come ero alla sua grande serietà».
Come si rivolgeva a lei?
«Figlia mi’, o figlia mia. Anna Maria per esteso solo quando si arrabbiava».
Oggi esiste un Cossiga?
«No, assolutamente. La politica di adesso è cosa completamente diversa da quella di allora. Non c’è rispetto per l’avversario, c’è una violenza verbale che non c’è mai stata, non ci sono politici di professione. E non è solo l’Italia. Basta vedere Trump, la politica israeliana. C’è un’enorme decadenza della democrazia per come l’abbiamo sempre intesa».
Come mai, secondo lei?
«Spesso le culture quando hanno paura usano il passato per rispondere al presente. I cambiamenti così repentini della società, e anche della tecnologia, hanno generato la paura della perdita dell’ordine e una richiesta di tornare indietro ad un vecchio modello di controllo, di sicurezza».
Come si sarebbe misurato suo padre con quest’epoca di social?
«Lui amava la tecnologia, i cellulari, i computer. Ma ad esempio non si è mai interessato a Facebook che nasceva negli ultimi anni della sua vita. Sarebbe stato un po’ perso, anche se forse su X sarebbe diventato molto popolare».
In conclusione. Com’è, o come è stato, essere la figlia di un Presidente della Repubblica?
«C’è molto orgoglio, naturalmente. Ma a volte essere stata “la figlia di...”, per una che ha voluto sempre fare da sola, è stato molto difficile».