Avvenire, 29 maggio 2025
Intervista ad Alfred Brendel
L’addio, dopo una carriera lunga sessant’anni, nel 2008, a dicembre, a Vienna dopo un tour che lo ha riportato nei suoi luoghi del cuore nel mondo. «Sessant’anni di concerti bastano e avanzano, mi sono detto». Da allora, paradossalmente, «ho frequentato la musica ancor più di prima». Più tempo libero. Più energie. Che non mancano al novantaquattrenne Alfred Brendel. Pianista (e poeta) austriaco, classe, 1931, a Wiesenberg, oggi in Repubblica Ceca. Tra i più grandi pianisti di sempre. Che nel 2008 ha chiuso il coperchio del pianoforte. Ma che da allora non ha smesso di vivere «nella musica». Da oggi Brendel è a Mantova, ospite d’onore dell’edizione 2025, la numero tredici, di Trame Sonore, il festival di musica da camera che con i suoi oltre 150 concerti proposti da più di trecento artisti invade strade e palazzi della città lombarda sino al 2 giugno. Alexander Lonquich è artista residente, in cartellone Iand Bostridge e nomi come quelli di Ilya Gringolts, Enrico Bronzi, Nicolas Altstaedt, Marco Rizzi, Andrea Lucchesini, Liza Ferschtman, Sergey Malov, Danusha Waskiewicz, Roberto Prosseda, Maurizio Baglini e Silvia Chiesa. «Vengo a Mantova dal 2017 – racconta il pianista – e sono ormai un habitué di un appuntamento che ho da allora particolarmente caro perché Trame Sonore è ad un tempo una certezza e una sorpresa continua».
Cosa la convince, maestro Brendel, a 94 anni, a fare le valigie e mettersi in viaggio?
«La musica, naturalmente. Vengo volentieri a Mantova perché i capisaldi di varietà e qualità di questo festival sono esemplari, c’è un dinamismo che fa sì che ogni appuntamento abbia un suo significato nella tessitura complessiva. E ogni concerto merita di essere scoperto».
Qual è il suo ruolo di “grande vecchio”, tra oltre trecento artisti provenienti da tutto il mondo?
«Dire che fare musica significa farlo insieme. Anche per un solista che deve farla insieme al compositore, alle varie voci che compongono la partitura, al pubblico che è la nostra ragion d’essere».
La manca il pubblico dopo il suo addio ai concerti?
«La scelta di concludere la carriera pubblica di concerti è stata preparata e consapevole: direi che sessant’anni di concerti bastano e avanzano. Così ho voluto scegliere liberamente il momento di far approdare in porto la mia lunga navigazione musicale: ho smesso mentre sentivo ancora pienamente il controllo delle mie risorse di esecutore piuttosto che vedermi costretto al ritiro da una situazione dettata dall’inesorabile passar del tempo. Da allora, da quel dicembre del 2008, ho frequentato la musica ancor più di prima, avendo più tempo libero dagli impegni pubblici e dall’imprescindibile e indispensabile disciplina dello studio quotidiano».
Suona ancora in casa? Magari per i suoi amici?
«In casa mia, ormai, non suono io, ma lo fanno i giovani musicisti che vengono regolarmente a trovarmi per chiedere consigli e che ricevo sempre volentieri. Mi rendo conto che l’esperienza è una ricchezza da condividere e lo faccio sempre con apertura, talvolta con apparente severità, comunque con quella solidarietà che unisce le generazioni di musicisti nella convinzione che siamo tutti al servizio dei compositori che mettiamo sul leggio. Recentemente ho avuto la fortuna di partecipare a serate di vera musica da camera intorno a Franz Joseph Haydn, occasioni che talentuosi musicisti hanno messo insieme con un istinto tanto brillante quanto affettuoso verso questo compositore che mi ritrovo con il passare del tempo ad amare sempre di più».
E le capita di andare a teatro?
«Sì. E non frequento solo il teatro musicale o i concerti. Il teatro, la prosa è da sempre un mio interesse costante. Mi capita spesso di ripensare ai testi del cosiddetto teatro dell’assurdo di Samuel Beckett ed Eugène Ionesco che sono i pilastri su cui poggia la mia formazione culturale. Ripenso ai grandi spettacoli di Giorgio Strehler, Peter Brook, Peter Stein che restano per me riferimenti drammaturgici ed estetici unici. Ho sempre sostenuto che noi musicisti dobbiamo essere alla ricerca dei personaggi, dei loro “caratteri”, così come i compositori li hanno definiti ed espressi. Un gioco che ogni ascoltatore può compiere e che non smette di affascinarmi è quello di attribuire un “carattere” ad ogni tema musicale, con le sue peculiarità immediate che l’autore e l’interprete sono complici nel rappresentare, fra armonie e contrasti».
Segue i giovani pianisti di oggi? Chi sono i talenti sui quali scommetterebbe?
«È molto interessante per me seguire la fioritura che continua ad esplodere con le recenti generazioni di musicisti che si avvicendano a un ritmo sempre più serrato. E questo non capita solo con i pianisti. Mi piace seguire tutti i talenti musicali che nascono, forse anche perché la mia concezione del pianoforte è piuttosto pluralistica, nel cercare di rappresentare il più possibile la varietà di suoni e colori degli altri strumenti. Così nella fascia di età fra i venti e i trent’anni emergono figure dalle impressionanti doti str umentali a un ritmo talmente serrato che quasi è difficile anche per chi sta in prima linea seguire la traccia di tante traiettorie. Vedo poi che una casa discografica come la Deutsche Grammophon è meritevolmente impegnata nell’offrire una platea virtuale a un grande numero di giovani interpreti ai quali poi spetta l’onere e l’onore di far fruttare questi trampolini di lancio».
A proposito di giovani talenti, il suo è nato in una famiglia dove nessuno era musicista. Che cosa fa le fece scattare l’amore per la musica?
«È ormai accertato anche dalla scienza che l’inclinazione per la musica precede quella per il linguaggio. E questa sensibilità ai suoni in alcuni bambini fa già intravedere il talento. Nel mio caso, la musica era parte dell’alfabetizzazione e la constatazione che facevo progressi più rapidamente rispetto alla media degli altri ragazzini ha fatto scattare in me la molla della curiosità sostenuta dalla soddisfazione. Così ho avuto, come sempre deve essere, la consapevolezza di una vocazione verso ciò che era in grado di far esprimere pienamente la mia personalità».
Quali gli autori che ha amato di più?
«In gioventù ero piuttosto eclettico, anche perché mi piaceva disegnare, cimentarmi con la poesia e con la composizione musicale, una cosa, quest’ultima, che consiglio a tutti i musicisti per capire dal di dentro “come funziona” una partitura. Con il tempo mi sono poi reso conto che bisogna compiere delle scelte per non rimanere in superficie. E le mie si sono orientate verso il quadrilatero viennese per eccellenza, Mozart, Haydn, Beethoven e Schubert, autori con i quali ho capito che avrei potuto mettere a frutto i talenti che mi ha dato la vita. Il che non significa esclusività verso tanta altra grande musica, ma semplicemente concentrarsi sull’essenziale per dare il proprio meglio».
La musica può essere uno strumento di dialogo?
«Non solo può, ma deve esserlo. Festival come Trame Sonore, con la loro varietà e la coesione che ne deriva, lo dimostrano. Per questo dobbiamo essere grati a chi la musica la crea, la ospita, la frequenta e la ama».