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 2025  maggio 28 Mercoledì calendario

Niccolò Branca: «Il mio maestro? Un lama tibetano. D’Annunzio ringraziò nonno Dino. Da Amici miei ad Angelina Jolie, tutti hanno bevuto il nostro Fernet»

Il suo cognome è scritto da quasi due secoli su milioni di etichette in giro per il mondo. Ma il conte Niccolò Branca, prima di entrare in azienda, il pianeta lo ha girato praticando discesa fluviale in gommone (a remi) alla scoperta di luoghi e popoli remoti e poi affrontando le rapide interiori alla ricerca di sé stesso.
Trent’anni fa ha incontrato la meditazione; la pratica lo ha portato a vivere in Nepal, nella casa di un lama tibetano, e poi in Birmania nel monastero buddista Theravada della tradizione «della foresta». Ha frequentato monache come Khandrola, studiato la psicosintesi con Giorgio Fresia e la programmazione neurolinguistica con Giorgio Nardone. Da presidente esecutivo della Fratelli Branca Distillerie, storica azienda milanese che compie 180 anni nel 2025, continua a credere «nella forza della consapevolezza» e in un modello etico dell’imprenditoria.

I Branca sono nobili dai primi del ’900. Come è accaduto?
«Il titolo è arrivato con una Bolla papale “per meriti”».
Tiene ancora al titolo di conte?
«Molto, ma questi “meriti” non sono qualcosa che si eredita e basta. Bisogna lavorarci e coltivarli ogni giorno».
Come?
«Cercando di creare un valore che non stia solo nei numeri. Il profitto, legittimo, di un’impresa deve essere di tipo generativo. Deve generare benessere per tutti e deve essere prodotto nel rispetto delle persone e dell’ambiente. Però attenzione, non sono buonista».
E come si definirebbe?
«Consapevole. Tra il buonismo e il cinismo, entrambi da respingere, c’è la consapevolezza».
Come la vedono i suoi colleghi imprenditori?
«Andrebbe chiesto a loro... immagino ci sia qualcuno che forse mi critica o magari non capisce bene di cosa stiamo parlando. Ma guardi non sono più una mosca bianca, negli ultimi 15 anni la cultura imprenditoriale si è evoluta moltissimo. Il mio primo libro Per fare un manager ci vuole un fiore aveva comunque venduto parecchie copie anche allora».
Cos’è Branca oggi?
«Un’impresa radicata nella tradizione e proiettata nel futuro. Una comunità che cerca di lavorare con visione e responsabilità. Quando mi chiedono: “Quali poteri avrò per questo incarico?”. Io rispondo: “Nessuno, avrai delle responsabilità”. Poi mettiamo a disposizione tutti gli strumenti, gli spazi e il tempo per la propria ricerca interiore, se la si desidera, dallo yoga alla meditazione».
Partiamo dall’inizio.
«Tutto nasce a Milano nel 1845. Bernardino Branca, speziale, crea un elisir con 27 ingredienti da quattro continenti. Il Fernet-Branca. Alla fine dell’Ottocento la produzione cresce e nel 1913 inauguriamo lo stabilimento di via Resegone: una cittadina del lavoro. Macine, alambicchi, falegnamerie, orti. Già allora avevamo una nostra idea di welfare».
Lo stabilimento è ancora lì?
«Sì, perfettamente attivo. Da via Resegone esportiamo verso 160 Paesi. È il cuore dell’azienda, ancora oggi».
Lei, esponente della quinta generazione dei Branca, a un certo punto se ne andò...
«Sì, nel 1989. Avevo bisogno di fare altre esperienze. Ho lavorato in ambiti diversi: finanza, editoria, ricerca umanistica. Ma sempre coltivando un’idea di cammino interiore».
Cosa ha capito?
«Che sono un imprenditore. Nel 1999 sono tornato in azienda. Ho rifondato il gruppo con Branca International».
Una delle prove più dure?
«La crisi argentina. Avevamo uno stabilimento storico a Buenos Aires. Viaggiando e ascoltando capii che il Paese stava per crollare. Portai legalmente all’estero i fondi. Una scelta impopolare, ma necessaria».
E poi?
«Poi arrivò il default. Ma grazie a quella decisione noi non abbiamo mai smesso di pagare stipendi né acquistare materie prime. Nessun licenziamento, né diretto né indiretto».
Si dice che lei non si lamenti mai.
«Quando ti lamenti, smetti di vedere. Quando vedi, trovi la soluzione e la via».
La globalizzazione è davvero finita?
«Si è trasformata. Per superare le barriere doganali, Branca fondò stabilimenti a Buenos Aires in Argentina e poi quello a New York che crebbe anche durante il proibizionismo perché i nostri distillati venivano venduti in farmacia. Oggi serve flessibilità, capacità di ascolto, e attenzione ai territori. Noi lavoriamo in rete: Milano, Buenos Aires, New York. Tre anime, un solo corpo».

Come si fa il Fernet-Branca?
«Con 27 erbe e spezie da tutto il mondo. Le selezioniamo, le trasformiamo con decotti, infusi, distillazioni. Poi un anno in botti di rovere. Tutto avviene internamente. È una liturgia industriale».
Chi conosce la formula?
«Solo noi. È un sapere tramandato internamente, da generazioni. Una ricetta gelosamente custodita».

E oggi i cocktail bar vi riscoprono?
«C’è un ritorno alla qualità, alla miscelazione consapevole. Per i 180 anni abbiamo chiesto ai bartender di disegnare la “coin” celebrativa. Una moneta del gusto».
Come celebrate questo traguardo?
«Coinvolgendo chi ci ha sempre sostenuto: bar, locali, appassionati, clienti storici. È un’occasione per raccontare il futuro. Io sono l’esponente della quinta generazione, mio figlio Edoardo è già in azienda, negli Stati Uniti».
Nel 2002 avete ristrutturato la Torre Branca, con quale idea?
«È un simbolo di Milano. Progettata da Giò Ponti nel ’33, era stata chiusa per  trent’anni. L’abbiamo restaurata e riaperta alla città e ai turisti. Da lassù si vede tutto: il Duomo, il Castello, i grattacieli e quando il cielo è terso anche le Alpi».
Il marchio Branca ha un legame con il cinema.
«Una presenza discreta ma costante. Milano odia, Amici miei, La mazzetta, Yuppies. Il Fernet-Branca è diventato un oggetto di scena. Ma anche nei film internazionali, come The Dark Knight Rises o Maria, il biopic con Angelina Jolie nei panni di Maria Callas. C’è una scena dove la straordinaria soprano beve un Fernet-Branca prima di salire sul palco, con una foglia di menta».
Anche il mondo della cultura ha spesso incrociato la storia Branca. È celebre una lettera che vi scrisse D’Annunzio...
«Sì, una lettera del 1929 scritta dal Vate a mio nonno Dino. Lo ringraziava per una fornitura di Kina-Kina. Scriveva D’Annunzio: “Caro collega ed emulo, io sono bevitore d’acqua, come tutti sanno, e perciò ho un senso del gusto tanto squisito che potrei farmi giudice inappellabile in un’esposizione enologica. Questa vostra Kina-Kina è deliziosissima. Un secentista direbbe che è un liquido velluto. Anche il colore è stupendo. Grazie del dono”».