Corriere della Sera, 28 maggio 2025
Le giravolte di Donald
Donald Trump frustrato e con le armi – istinto, imprevedibilità, dealmaking – spuntate davanti a un Vladimir Putin, studioso della sua psicologia (già nel 2017, prima di incontrarlo, chiese un rapporto sulla sua mentalità) che lo spinge verso un binario morto con una strategia fatta di elogi, disponibilità al dialogo sull’Ucraina e zero concessioni. Ora che Trump, dopo avergli fatto regali a raffica senza ottenere nulla, dice di non capire più il suo amico e gli dà del matto, il Cremlino replica con altri ringraziamenti per gli sforzi negoziali uniti a una frase che sa più di commiserazione che di comprensione: quel giudizio di «sovraccarico emotivo» brucia più di un insulto sulla pelle di un presidente che aveva promesso «pace in 24 ore», certo di godere di un rispetto che il leader russo non aveva per Obama e Biden.
Anche nel primo mandato Trump aveva gestito alcuni dossier con superficialità facendo concessioni in cambio solo di qualche risultato mediatico (come nel caso dell’incontro col dittatore della Corea del Nord). Gli avversari degli Stati Uniti si erano, però, mossi con prudenza, spaventati dall’imprevedibilità delle sue reazioni.
Ma, come sanno gli scacchisti che sono riusciti a battere un giocatore migliore con mosse sconcertanti, l’imprevedibilità funziona una volta sola. Trump ha usato quest’arma di nuovo ma su altri fronti: per accusare la Ue di essere peggio della Cina sul piano commerciale, per pretendere l’annessione della Groenlandia, per mettere con le spalle al muro Zelensky.
Tutti regali a Putin (indebolimento dell’Europa e di Kiev, disprezzo per le regole del diritto internazionale) al quale ha fatto, poi, molte altre concessioni: riconoscimento dei territori annessi prima ancora di cominciare a negoziare, no preventivo ad estendere all’Ucraina il meccanismo di difesa Nato, capovolgimento della realtà attribuendo a Zelensky la responsabilità della guerra e rifiutando di riconoscere, in sede Onu, la Russia come invasore. Ma anche smantellando, lontano dai riflettori di tv e giornali, le task force del governo Usa che stavano raccogliendo prove dei crimini di guerra di Mosca, che indagavano sui tentativi del Cremlino di interferire nei processi elettorali in Occidente e che ricostruivano i patrimoni occulti degli oligarchi vicini a Putin. Fino alla chiusura, mascherata da risparmio delle spese di bilancio, di organizzazioni che erano una spina nel fianco del Cremlino: dalla Voice of America al National Endowment for Democracy, creato a suo tempo da Ronald Reagan per monitorare le campagne russe di disinformazione.
Avendo offerto tutto questo, Trump si aspettava abbracci e pace da Putin. Invece lo zar, felice di aver incassato soprattutto il risultato più importante, la riammissione di un leader accusato di crimini di guerra e a rischio di arresto, nel consesso dei grandi, in un rapporto alla pari col capo della superpotenza mondiale, non gli ha concesso nemmeno una tregua di 30 giorni.
Così il set da Mezzogiorno di fuoco è stato smontato e il leader americano ha rimesso la Colt nella fondina: da pistolero è diventato prima un leader supplicante (sconcertato davanti ai suoi appelli fatti cadere nel vuoto da un autocrate che, pure, ammira), poi un presidente irritato: un Trump ondeggiante tra il risentimento nei confronti di Putin, la tentazione di ritirarsi da una partita «che riguarda soprattutto gli europei» (peraltro esclusi dalla sua architettura negoziale) e la minaccia di punire Mosca per la sua protervia che, però, finora non si è concretizzata nell’adozione di nuove sanzioni.
Risale a più di 50 anni fa The Broken Rebel, saggio nel quale Rupert Wilkinson analizzò le differenze tra una personalità autoritaria e un vero autocrate capace di imporre una dittatura spietata: indagine su come chi ammira un dittatore e vorrebbe gestire il potere in modo altrettanto assoluto rischia di finire in una sorta di sottomissione, magari finendo per sfogare la sua aggressività su chi è più debole. Più di recente sono stati scritti vari saggi sulle psicologie di due leader – Trump e Putin – che condividono tratti comuni, da un populismo che cattura il consenso di masse frustrate alimentandone il risentimento al narcisismo, ma molto diversi sotto altri aspetti.
Con Trump che oggi paga (e fa pagare a tutti i Paesi nel mirino della Russia) la sua illusione di poter mettere fine alle guerre con accordi tra grandi oligarchi del Pianeta nei quali lui pensava di prevalere grazie alla sua imprevedibilità e alla sua capacità di trasformare tutto in trattativa commerciale, senza perdere tempo a leggere dossier sulle cause profonde dei conflitti e ad ascoltare relazioni di diplomatici e intelligence sulle reali forze in campo.
Fidandosi solo del suo istinto, il leader americano sembra non capire che dietro l’autoritarismo che lui ammira, Putin ha la spietata razionalità dell’ex funzionario del Kgb, deciso a sfruttare tutti gli spazi che gli si aprono davanti per ridare alla Russia una grandezza imperiale dopo le umiliazioni del crollo dell’Unione Sovietica.
Così, mentre il suo team adorante vede nel futuro di Trump un altro manuale di grande successo, The Art of Peace Deal, l’arte di concludere accordi di pace, Putin gli fa balenare la possibilità di favolosi accordi commerciali Usa-Russia, dei quali il presidente si dice entusiasta. Talmente convinto di poter porre fine a una guerra che spacca l’Europa creando vantaggi di tipo economico da mandare a negoziare con Lavrov, grande volpe della diplomazia russa, il suo amico Steve Witkoff: un immobiliarista del Bronx che fino a qualche giorno fa dava interviste assicurando che Putin non poteva avere alcun interesse a estendere il suo controllo su tutta l’Ucraina. Oggi è lo stesso Trump a sostenere il contrario. Meglio rimettere, per ora, nel cassetto il sogno del Nobel per la Pace