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 2025  maggio 28 Mercoledì calendario

Intervista a Matteo Màrtari

Matteo Màrtari è sul set di Cuori 3 a Torino. “È l’ultima settimana di riprese, succederà di tutto, le novità sono tantissime, ci sarà da divertirsi” ci dice al telefono. Intanto festeggia il successo della serie Maschi veri, il titolo più visto di Netflix, storia di quattro amici che devono misurarsi con la propria mascolinità in crisi nel confronto con le compagne e con la società che cambia. “Ho sempre creduto che fosse un buon progetto quindi sono molto felice che in tanti lo stiano vedendo e che stia rispecchiando le aspettative”.
Veronese, 41 anni, 1,85 d’altezza, fisico da sportivo, ha debuttato al cinema dieci anni fa con La felicità è un sistema complesso di Gianni Zanasi poi una teoria di serie che gli hanno dato popolarità: i polizieschi Non uccidere e Brennero, Libera con Lunetta Savino, il dramma medico sentimentale ambientato nell’ospedale Le Molinette di Torino con Pilar Fogliati arrivato alla terza stagione.
Che reazioni ha avuto dai suoi amici che hanno visto Maschi veri?
"Il riscontro è positivo. E per me in particolare perché nessuno dei miei amici mi ha riconosciuto in Massimo, questa è già una piccola soddisfazione. La maggior parte dei miei amici mi ha detto che era difficile per loro immaginarmi in un ruolo così”.
A chi lo deve?
"Sicuramente ai miei genitori e all’educazione che mi hanno dato. Hanno fatto un enorme lavoro nella direzione del rispetto, dell’ascolto, di questo li devo sicuramente ringraziare”.
Come sono o come dovrebbero essere, secondo lei, i “maschi veri”?
"Come sono e come dovrebbero essere è già un programma. Negli ultimi vent’anni quello che viene considerato un maschio vero è l’idea dell’uomo che non deve chiedere mai, che si prende cura di tutto e di tutti, sotto una forma machista e superoica. Io però per curiosità sono andato a vedere l’etimologia dell’espressione ed è venuto fuori che il maschio vero è l’uomo che ha deciso di pensare. Un concetto totalmente all’opposto rispetto a quello che solitamente si usa, quindi bisognerebbe semplicemente sapere cosa significano veramente le parole. Se un maschio vero è uno che pensa, la conseguenza del pensare è farsi delle domande, aprirsi agli altri, il confronto, accettare il cambiamento, mostrare le proprie fragilità, non aver paura di chiedere se non si capisce”.
L’uomo che non deve chiedere mai era uno spot del 1985, lei aveva due anni. Oggi, per uno spot come quello, probabilmente il creativo sarebbe silurato...
"Sicuramente oggi è un’affermazione forte che io non farei. Massimo però la potrebbe fare”.
Massimo, il suo personaggio, è un direttore di programmi tv che viene licenziato per una campagna sessista e un messaggio sui social che unisce sessismo e body shaming. Si è ispirato a qualcuno?
"Sì ma non nel mondo né del cinema né della televisione. Mi sono ispirato a uno che ho conosciuto nel mondo della ristorazione, che è un mondo piuttosto controverso e ambiguo che ho frequentato per diversi anni. Ci sono tanti Massimo in quel mondo ma in particolare ho ripensato a un maître di sala che ci impartiva spiegazioni e ordini con quel piglio”.
Lei è diplomato all’istituto alberghiero, ha lavorato nella ristorazione, per anni in una panetteria. Di quel periodo cosa l’è rimasto?
"Moltissimo. Ora dico una banalità ma vera: siamo il risultato di tutto quello che facciamo, ogni mondo con cui ti confronti sedimenta dentro di te. Poi magari non sai quando ti torna utile ma c’è e poi a un certo punto viene fuori”.
E invece degli anni come modello?
"In quel caso il legame con l’obiettivo è più diretto. La macchina fotografia è un po’ come la macchina da presa quindi se sei già abituato ad avere confidenza con l’obiettivo – che è un oggetto molto curioso – quello aiuta. Può incutere paura, c’è chi lo schiva in tutti i modi. Io mi ci sono trovato di fronte varie volte negli anni, che non sono moltissimi, in cui ho lavorato nella moda. Sicuramente però ho preso familiarità con l’obiettivo”.
I provini come li vive?
"Un provino è pur sempre un esame, anche lì andando all’etimologia della parola. Quindi difficile da gestire, bisogna cercare di dare il meglio di sé. Però è bello confrontarsi con le proprie paure anche se destabilizzante”.
Quello che le è rimasto più impresso?
"Sicuramente quello con Daniele Vicari per L’alligatore. Perché è durato tipo mezza giornata, direttamente con Daniele. Credo che quello non potrò mai dimenticarlo. Tutto un provino su una scena, è stata una bella prova”.
Con gli altri, Pietro Sermonti, Maurizio Lastrico e Francesco Montanari vi conoscevate già?
"Non ci conoscevamo per niente fra noi. Forse Maurizio e Pietro avevano fatto qualcosa insieme ma non c’era un rapporto tra noi. Galeotto fu il pranzo che abbiamo fatto prima di iniziare a girare. Il nostro primo giorno di riprese in realtà è stato una sera al mare, sono le scene in barca. Siccome raccontiamo la storia di quattro amici che si conoscono da una vita era necessario fare qualcosa. E quindi per la gioia della produzione, noi quattro ce ne siamo andati al mare fermandoci a pranzo per conto nostro. Da quel giorno si è creato qualcosa di particolare, Pietro la spiega molto bene perché la racconta come un innamoramento, un qualcosa di adolescenziale. E dice bene”.
È vero che avete creato una vostra chat che però non si chiama Maschi veri?
"Mi sa che questa cosa della chat era meglio se ce la tenevamo per noi. Comunque sì, abbiamo una chat che si chiama “I pirates” ed è una citazione che ha tirato fuori Pietro Sermonti da Verdone (Un sacco bello, ndr). Ci divertiamo molto assieme”.
Ha mai avuto un gruppo di amici così?
"Un gruppo così no perché sono stato molto itinerante nella vita. Dopo Verona ho vissuto a Milano, poi in Francia, poi in America, poi sei mesi in Brasile. Poi mi sono trasferito a Roma. Però ho tanti amici maschi che appartengono a mondi diversi, con alcuni ho costruito legami fortissimi ma singoli, non un gruppo, amicizie che porto avanti da trent’anni. Sono rapporti essenziali, amici con i quali ho la fortuna di riuscire a parlare di qualsiasi cosa, che è anche un tema della serie. Io con certi amici posso veramente sviscerare qualsiasi cosa”.
‘Non si può più dire niente’, ‘ormai tutto è patriarcato’. Nella serie ci sono delle frasi che sentiamo dire nella vita di tutti i giorni. È stato definito un maschilismo involontario. Lei ha scoperto qualche seme di maschilismo involontario in sé?
"Lo spettro è talmente ampio, sicuramente dei campanelli si sono accesi. E poi mi ci sono confrontato. Un po’ è quello che spero questa storia faccia, di certo non vogliamo rispondere a quesiti esistenziali ma se fa sorgere in maniera ironica qualche domanda già va bene. Per me è successo”.
Machos Alfa, la serie di cui la vostra è un remake, ha già tre stagioni, Maschi veri finisce con un finale piuttosto aperto. Ci sarà un seguito?
“Io questa risposta oggi non ce l’ho. Confido di sì, mi auguro anche perché abbiamo ancora belle storie da raccontare. La speranza c’è ed è anche grande”.
La fidanzata influencer di Massimo, anzi creatrice di contenuto, lo accusa di mansplaining. Quanto è difficile sradicare l’idea che ci sia sempre qualcosa che le donne non comprendono?
"Credo che sia un problema bilaterale, c’è una sorta di incomprensione di fondo ed è lì che si crea il disagio. Quello che è importante è non fare finta di niente. Nella serie Massimo finisce vittima di una sorta di mantra quando dice in molte circostanze ‘non ho capito’ che fa sorridere. È il suo modo per chiedere aiuto, per dire ‘spiegami, ho bisogno di capire’. Non tutti siamo capaci di chiedere aiuto nello stesso modo, però dobbiamo cercare di mandare un messaggio perché farsi le guerre non ha senso. Lottiamo insieme per qualcosa”.
Si ritiene un romantico?
"Sì e senza vergogna. Mi sono sempre un po’ vergognato di dirlo, ora no, sono fiero di essere romantico”.

Massimo viene licenziato per un post sui social. Lei che rapporto ha con chi le scrive, con gli hater?
"Ora lo dico e magari domani mi sveglio con la pagina piena di insulti però al momento hater non ne ho. Io nel complesso ho un buon rapporto coi social, riconosco l’efficacia dello strumento e ho una vita personale che porto avanti al di fuori dei social con le mie passioni e i miei interessi. Credo di avere un rapporto sano coi social, che è un mezzo di comunicazione come un altro, non può essere la tua vita, ma può essere uno strumento di lavoro”.
Tre le passioni c’è la montagna. Che ha unito al lavoro nella serie Brennero. Come nasce?
"Sono i miei luoghi dell’infanzia, le Dolomiti essendo io veneto sono le montagne che ho frequentato di più da ragazzo poi crescendo mi è rimasto un legame ancestrale con quei posti. Però ho imparato a conoscere anche altre montagne come le Alpi del Piemonte e Valle d’Aosta. In Italia lo spettro alpestre è incredibile.
Spesso i suoi post – anche quello di un anno fa con papa Francesco – finiscono con l’espressione “saghè”. Che vuol dire?
"Io amo questa parola e ormai la uso come termine multiespressivo. Tradotto letteralmente in italiano vuol dire ‘che cosa c’è?’, però conforme il tono può essere un’espressione di conforto, un saluto, può prendere le distanze da qualcosa. Io amo questa parola ma non so dire neanche bene perché se non che a seconda del tono ha un significato diverso”.
Quando ha capito che la recitazione era il suo futuro?
“Un momento specifico non c’è, perché io ho cominciato a fare sul serio fin da subito. Ho avuto sempre un approccio professionale e serio all’interno del gioco del nostro mestiere, fin dal primo provino”.
Se non avesse fatto l’attore, aveva un piano B?
"Ho coltivato molti piani B prima di cominciare la carriera d’attore. Alla peggio so stare in cucina, so fare il pane, ho una discreta manualità con diverse materie, lavoro il legno. Qualcosa posso fare”.
Ha un sogno nel cassetto?
"Sì il sogno ce l’ho, ma il problema coi sogni è che se si rivelano non si avverano per cui credo nei sogni ma li tengo per me”.