il Fatto Quotidiano, 28 maggio 2025
L’élite del sapere e la furia di Trump
Dal DuSable Bridge, nel cuore geometrico di questa città di papi e attentatori, ti ferisce ad altezza d’uomo la scritta Trump, enorme sulla torre di vetro che dal 2009 sfida i leggiadri e antichi grattacieli circostanti sul fiume Chicago, il più bel museo a cielo aperto di architettura contemporanea.
Quel lampo cubitale ti resta in mente chilometri più a sud, nel campus dell’università, ricco di edifici neogotici planati in una zona black, non abbiente. Nel Chicago Forum per la libertà di ricerca e di espressione ci ritroviamo in venti a discettare dei primi cento giorni del presidente, e sembra un’accolita di alcolisti anonimi e nomi di fantasia – Alyssa la matricola non supera il trauma della fallimentare campagna per Kamala nel suo Arizona, Mark l’architetto di colore chiama per nome Barack e Hillary e Joe sognando improbabili recuperi, John il battagliero pro-Pal vorrebbe tornare a occupare il Quadrangle con le tende, ma sa che non si può più, l’anziana docente Cathy osserva che un’alleanza tra le università liberal per resistere ai continui ricatti del presidente non si farà mai.
Cathy ha ragione. L’indomani, qui stesso, è il sociologo Charlie Eaton a ricordarci come la tanto compatita Harvard – oggi esposta a punizioni strumentali e di sapore fascista – sia la punta di diamante di un sistema universitario elitario, classista, indifendibile, che ha prosperato sugli enormi patrimoni investiti nei peggiori hedge funds di Wall Street, ha premiato donatori generosi con sgravi fiscali e posti assicurati ai figli di papà, e ha indebitato fino al collo legioni di studenti. Il suo libro Banchieri nella torre d’avorio (2022) fa giustizia della pelosa retorica sugli alumni, le tasse alte e le “borse di studio ai meritevoli”, invocando un cambiamento radicale delle regole per abbattere la diseguaglianza strutturale dell’accesso all’istruzione superiore.
Ma nemmeno Eaton aveva previsto che le università sarebbero state messe nel mirino dalle stesse élite che vi si erano formate: il fenomeno – venduto al popolo Maga nella rubrica “lotta ai potenti corrotti” – è in realtà una vera e propria guerra tra élite, con quella destrorsa che ormai ravvisa in quella liberal una minaccia esistenziale. Il trumpismo non rappresenta più, dunque, un “individualismo anarcoide di destra” che si contenta di apartheid e autodifesa, vellicando la middle class di Terra contro quella di Mare (la terminologia schmittiana è ripresa nell’acuta analisi di Guido Mazzoni, Senza riparo, Laterza 2025); esso è ormai un’opzione culturale aggressiva, fondata su un’idea cesarista della democrazia e una visione isolazionistica e immunitaria dello Stato-nazione (e di polizia), ma anche sulla censura – nella leggendaria Accademia Militare di West Point, per dire, sono stati materialmente tolti dalla biblioteca i libri di Toni Morrison, e banditi dai corsi i cenni alle atrocità contro i Nativi americani (che ne faremo, qui a Chicago, del magnifico piano terra dell’Art Institute che celebra 2000 anni di capolavori degli indiani?).
Emblematica, per Eaton, la figura di Marc Andreessen, genio dell’informatica laureato anch’egli in Illinois (creò Mosaic e Netscape, i primi motori di ricerca degli anni 90; si è poi fatto d’oro come venture capitalist investendo in Facebook, in Bitcoin, in Intelligenza Artificiale, e l’unica cosa che lo spaventa oggi è DeepSeek): come tutta la Silicon Valley, egli gradì le carezze di Obama e fece campagna per Hillary Clinton, ma ora ispira i provvedimenti contro gli atenei “comunisti” e afferma liberamente che solo la tecnologia potrà risolvere i problemi dell’umanità: il suo “Manifesto Tecno-ottimista” è una sorta di vademecum degli oligarchi alla corte di Trump. Andreessen è uno di quelli che immaginano il futuro post-umano di un’inquietante pièce di Jordan Harrison (The Antiquities, appena uscita al Goodman qui a Chicago), uno di quelli che inverano la fosca profezia di Carl Sagan (1995): “Ho il presentimento di un’America al tempo dei miei figli o nipoti, quando gli Stati Uniti saranno un’economia di servizi e informazione, quasi tutte le industrie manifatturiere saranno fuggite in altri Paesi, tremendi poteri tecnologici saranno nelle mani di pochissimi, e nessun fautore dell’interesse pubblico sarà nemmeno in grado di capire il problema; la gente avrà perso la capacità di definire le proprie priorità o mettere in discussione con competenza chi ha il potere”.
Chi è il governo? chiede il giornalista Michael Lewis in un libro appena uscito (Riverhead 2025) che raccoglie sette longform del Washington Post dedicati ad altrettanti oscuri impiegati pubblici capaci, laureandosi con sforzo e lavorando nell’ombra in diversi Dipartimenti, di trovare farmaci contro malattie rare, di intercettare finanziamenti occulti ai terroristi, di inventare una formula per rendere più sicure le miniere di carbone, di dare degna sepoltura ai veterani. Sono loro il vero governo “profondo” e “competente” del Paese? O sono solo alcuni degli incapaci civil servant spernacchiati e licenziati da Elon Musk, ai quali si è appena aggiunta la bibliotecaria del Congresso, Carla Hayden, anche lei nera e laureata a Chicago, anche lei accusata (come molte delle università cui vengono ritirati i fondi, tacciate per sovrammercato di antisemitismo) di aver macchiato il proprio lavoro con retorica “Dei”?
Diversity Equity Inclusion: queste erano le parole che fino a ieri dovevi mettere in un progetto di ricerca o in un evento culturale perché lo Stato o l’università lo finanziassero, e che ora sono causa bastevole per farlo fallire, vessillo della rivincita del bianco etero autoctono. Nel deplorare questa caccia alle streghe degna di altri medioevi (ma condivisa da tanti statunitensi “di Terra”), ci si può chiedere se certa ostinata enfasi sulla cultura identitaria (nera, queer, femminista), assurta a vera architrave ideologica, abbia fatto davvero bene: se non si sia tradotta troppo spesso in una “formale crociata istituzionale incapace di portare alcun reale beneficio alle minoranze” (John McWhorter), in “micro-politiche del riconoscimento simbolico” atte a disarticolare la coscienza di classe e a offuscare la priorità di combattere il capitalismo neoliberista e i suoi sistemi di sfruttamento, che ora infatti toccano lo zenit (così – prima del diluvio – Mimmo Cangiano in Guerre culturali e neoliberismo, nottetempo 2024).
Di fatto, mentre il New York Times dà voce al “dove andremo a finire” di Bill Gates, e nel campus da un Dipartimento all’altro vedo prevalere lo sconcerto, il silenzio, la paura, è solo a tarda sera che trovo un vero efficace contraltare alla retorica di Trump: me lo offre colei che a Malibu abita l’unica villa più sfarzosa di quella di Andreessen, e che qui a Chicago canta volando su una Cadillac rossa nello stadio stracolmo di Soldier Field, là dove giusto 60 anni fa Martin Luther King tenne un grande discorso. Nel magico Cowboy Carter Tour, Beyoncé evita gli stucchevoli pistolotti di Springsteen e di Bono, celebra con piglio l’epopea dei cowboy neri del Texas, e fiera si appropria della bandiera a stelle e strisce (e dell’inno) in esito a un racconto nazionale inclusivo e plurale del tutto antitetico a quello dei Maga. Già iconica al Super Bowl del 2013 (che Michael Moore riconobbe come un punto di svolta nella coscienza del Paese), oggi qui la Beyoncé country fiera delle sue figlie e dei suoi antenati manda in visibilio la 20enne asiatica che urla nello smartphone, la quarantenne nera che si fa una canna di nascosto sugli spalti, e l’algido 60enne wasp che dondola in ritmo applaudendo alle sue frecciate. Non stupisce che Trump l’abbia attaccata minacciando indagini su presunti compensi illegalmente percepiti: è Beyoncé, in questo momento, la sua unica vera competitor.