Corriere della Sera, 27 maggio 2025
La scelta obbligata di Gentile
Il filosofo idealista Giovanni Gentile, ministro della Pubblica istruzione dal 1922 al 1924, avrebbe potuto sottrarsi alla richiesta di aderire alla Repubblica sociale italiana che gli rivolse Benito Mussolini nell’autunno del 1943? E avrebbe così evitato di essere ucciso da partigiani comunisti a Firenze, il 15 aprile 1944? Sono gli interrogativi ai quali Alessandro Campi risponde di no, nel saggio Una esecuzione memorabile (Le Lettere), a 150 anni dalla nascita del pensatore siciliano, avvenuta a Castelvetrano (Trapani) il 29 maggio 1875.
Secondo Campi, che è direttore dell’Istituto per la storia del Risorgimento, Gentile non aveva alternativa: aveva ricoperto cariche di prestigio sotto il fascismo, in cui vedeva il riuscito compimento della storia d’Italia, ed era un convinto sostenitore «dell’unità di teoria e prassi». Quindi ritenne di non poter abdicare all’impegno pubblico che aveva contraddistinto la sua vita e non si sottrasse alla chiamata del Duce, malgrado i rischi connessi. Nell’accettare di presiedere l’Accademia d’Italia della Rsi sapeva di diventare un bersaglio, per giunta non difficile da colpire, dato che viveva in un luogo relativamente isolato e non aveva scorta, ma solo un autista.
Di conseguenza la sua eliminazione – quali che ne siano stati i retroscena, su cui si continua a indagare – non può essere ridotta a un episodio fra tanti della guerra civile scoppiata dopo l’avvento del fascismo di Salò, ma va considerata, scrive Campi, «uno dei prezzi che è stato necessario pagare per far nascere dalle rovine prodotte proprio dal fascismo un’Italia nuova che dell’eredità di Gentile come organizzatore di cultura e formatore di uomini ha però mantenuto intatta una parte cospicua».
Affermazione quest’ultima che può suscitare perplessità, ma trova un rilevante riscontro nel fatto che «le istituzioni culturali progettate da Gentile o da lui ripensate e dirette» – si pensi alla Enciclopedia Treccani o alla Scuola Normale Superiore di Pisa – sono sopravvissute alla morte del filosofo e restano tuttora molto attive nell’Italia repubblicana. Segno che la sua opera, sostiene Campi, non era funzionale alla dittatura in quanto tale, ma aveva un respiro più ampio.
Il punto però, forse non evidenziato a sufficienza nel libro, è che la visione del fascismo coltivata da Gentile, ma osteggiata da molti altri seguaci di Mussolini, si fondava su un grave equivoco. Cioè sull’idea che il regime avesse condotto felicemente in porto il processo di rinascita dell’Italia avviato dalle lotte ottocentesche per l’unità nazionale.
Il filosofo siciliano, in particolare attraverso una lettura selettiva del pensiero di Giuseppe Mazzini, teorizzava una continuità tra Risorgimento e fascismo tutta da dimostrare. Vedeva le camicie nere come eredi legittime di quelle rosse garibaldine. E sottovalutava la coincidenza tra la battaglia per l’indipendenza nazionale e l’impegno dei patrioti per l’affermazione di quei diritti di libertà che il Duce invece aveva brutalmente soppresso, come gli fece notare nel 1925 Benedetto Croce, a lungo suo amico e sodale, nel Manifesto degli intellettuali antifascisti.
L’Italia liberale, con tutti i suoi pesanti limiti, praticava la tolleranza verso il dissenso e si era sforzata di includere sul piano politico le diverse componenti inizialmente ostili al Risorgimento, come i cattolici, o sopravvenute in seguito, come i socialisti. Il fascismo era invece un movimento di parte che pretendeva di identificarsi con la nazione e trattava i suoi oppositori da corpi estranei, condannati a essere espulsi dal consesso civile.
A Gentile sfuggiva insomma la vocazione totalitaria del regime, o forse sarebbe meglio dire che la ignorava, nonostante le crescenti prove che ne aveva di fronte agli occhi, dall’assassinio di Giacomo Matteotti all’adozione delle leggi razziali. E del resto nella fase finale del Ventennio il suo ruolo era stato molto ridimensionato.
Campi individua la «grandezza postuma» di Gentile «anche nel modo con cui ha tenuto ferme, sino alle conseguenze estreme, le proprie idee e il proprio progetto politico-culturale». Ma è una coerenza che sfiora l’accecamento. Gli appelli ripetuti del filosofo siciliano alla pacificazione nazionale in nome di una concezione astratta dell’Italia, mentre scorreva copioso il sangue tra fascisti e partigiani, sono al limite della perdita di contatto con la realtà.
Riesce difficile, secondo Campi, immaginare Gentile invecchiare nel dopoguerra isolato e sopravvissuto a sé stesso, ridotto a coltivare in silenzio gli studi filosofici. E tuttavia il suo sacrificio sotto le insegne della Rsi, espressione del fascismo estremista da cui era sempre stato distante, ispira una pena non minore.