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 2025  maggio 27 Martedì calendario

Intervista a Max Pezzali

Sto vivendo un momento incredibile e impronosticabile. Sto vivendo, a 57 anni, l’entusiasmo degli esordi». Per Max Pezzali è il tempo degli onori: l’11 luglio ci sarà il Max Forever all’autodromo di Imola, già annunciati tre appuntamenti per il 2026: il 19 giugno al Maradona di Napoli (una prima volta), il 23 al Circo Massimo di Roma e l’11 e il 12 luglio a San Siro. Dal 2022 a oggi, Pezzali ha venduto più di un milione e 300 mila biglietti per i suoi live. Aggiungiamo gli stream, il successo della serie sugli 883 e ilquadro della popstar riluttante che attraversa le generazioni è completo.
Che effetto fa tutta questa popolarità?
«Non lo avrei mai creduto. Però mi permette di sentirmi giovane, mi impedisce di vivere la fase “si stava meglio quando si stava peggio”. Guardo al futuro con fiducia».
C’è chi pensa che tutto questo sia frutto dell’effetto nostalgia.
«Penso che le canzoni fossero nostalgiche in partenza. Quello è uno stato dell’anima, un modo di affrontare narrativamente la vita. L’idea di un’età dell’oro non si riferisce a un tempo preciso. Mi viene in mente invece un altro aspetto: per una serie di circostanze fortuite, il mio repertorio si presta a essere reinterpretato perché è legato ai fumetti, ai colori primari, all’effetto Disneyland. È didascalico, cinematografico».
Il primo disco che ha comprato?
«Ho iniziato col mangiadischi, avevo Sos degli Abba. Poi le cassette: la prima fu Back in black degli Ac/Dc. Poi mi innamorai di Umberto Tozzi: secondo me lui e Raf hanno inventato il pop italiano.
Poi sono entrato in una crisi, mi sono avvicinato all’heavy:quella musica però aveva un valore identitario e prevedeva un impegno totale. Arrivai al punk, ho scoperto Joy Division, Crass, Exploited, e il punk italiano, tipo i Nabat. Ascoltare una certa musica significava aderire a una visione del mondo. Eri obbligato a farti una cultura, a cercare dischi, libri, film. Poi l’illuminazione arrivò con The river di Springsteen. La frustrazione del New Jersey mi sembrava la stessa della mia Pavia. Nebraska mi ha cambiato la vita».
Si sentiva fuori posto, alla periferia dell’impero.
«Non ero ghetto né high society. Classe media. Vivevo la percezione di un destino già scritto, con l’obiettivo del posto fisso e la sensazione di essere ingabbiati. A un certo punto ho pensato: ma chi è che racconta questo? Spesso le canzoni parlavano di cose così grandi che io non riuscivo a vedere. Ho provato a scrivere sui massimi sistemi, ma venivano malissimo. Mi venivano meglio le didascalie che mi si tatuavano in testa. La provincia senza internet, andavamo il sabato a Milano a vedere che succedeva ma a distanza di una settimana erano già tutti vestiti diversamente. Era tutto lontano, New York, Londra, tutto irraggiungibile».
Al di là della sua passione per i fumetti, come è nata l’idea dell’Uomo Ragno ucciso?
«Io e Mauro avevamo firmato per errore un contratto editoriale e non discografico. Dovevamo produrre. Avevo in testa questa melodia ma non usciva fuori niente. Una sera mi viene in mente “hanno ucciso l’Uomo Ragno” e mi chiedo: ma che vuol dire? Stavo in fissa con il personaggio, i manga stavano spazzando via i fumetti, anche la Marvel in quel periodo faceva storie non belle.
Temevo che quel mondo stesse finendo. Mi dispiaceva che il mio amico di quando ero ragazzino, il supereroe etico, che non guadagna ma persegue il suo obiettivo, stesse per estinguersi. Mi sembrava ci fosse un punto di contatto tra la crisi di certi valori e quella dei fumetti. Abbiamo costruito tutto da lì, da quella frase».
Restando sui fumetti, è grande amico di Zerocalcare e Roberto Recchioni, due artisti dalle ideologie marcate. Non è che, dietro questa facciata conciliante, si nasconde un pasdaran?
«No, sono un moderato che però non si pone problemi a dialogare con chi ha idee forti. Zero è uno che sa che preferisco non espormi perché ho paura di dire cazzate.
Sono pieno di dubbi, che prevalgono sulle certezze. Persone così preparate e informate aiutano anche me a capire meglio le cose».
Dalla serie pare evidente che senza la tenacia di Repetto forse non gli 883 non sarebbero riusciti a emergere. È stato così?
«Continuo a dirlo da allora: gli riconosco di non aver mai avuto un dubbio sulla possibilità di raggiungere i nostri sogni. La sua frase era “dignità zero”, anche oggi è così: io certe cose non le farei mai, adesso mia moglie ha preso il ruolo di Mauro.
È guidato da una forza più grande di lui. È un grande motivatore che ha permesso a me di esprimermi.
Senza di lui sarei a casa dei miei».
Ha collaborato con tanti artisti, alcuni anche apparentemente distanti da lei. Ha qualche ricordo particolare?
«Andare a cena con Venditti è catartico, racconta la musica italiana come se fosse la vita quotidiana, senza nessun aspetto sacrale. E poi Baglioni: in studio una volta mi disse “sai che in Come mai c’è un andamento non banale?”. Cioè lui, perfezionista della nota e dell’accordo, mi ha dato un parere tecnico positivo. E io pensavo “ma chi te lo doveva dire a te che vieni da Pavia?».
Fiorello, Jovanotti, Linus, e tanti altri. Il gruppo di Radio Deejay ha definito le coordinate del mondo dello spettacolo dagli anni 90 a oggi. Ha conservato rapporti?
«Siamo tutti legati, come se avessimo un imprinting comune, sembravamo la factory del pop, è stato bravissimo chi ci ha assemblati. Abbiamo imparato diverse cose, tra cui metterci nei panni di chi ascolta prima che nei nostri».
C’è qualcosa che le fa veramente paura?
«La perdita della memoria. Quando si perde la propria storia succede qualcosa di crudele: non poter più raccontare e condividere».