Avvenire, 27 maggio 2025
Spinta di legge verso la moda circolare
La McKinsey & Company, una società di consulenza aziendale, ha stimato che nel 2024 tra il 20 e il 30% dei capi acquistati online e due su dieci di quelli comperati in negozio siano stati restituiti. Ma riconfezionare questi capi per metterli di nuovo in vendita ha un costo tale che risulta molto più economico scartarli. La stessa cosa capita alla merce che resta invenduta. C’è da scommettere che buona parte arrivi in Ghana, al porto di Accra, che riceve ogni settimana 15 milioni di vestiti in balle da 60 chili. Lì, vengono smistati per essere inviati al mercato di Kantamano dove, però, se ne vendono solo 25 milioni al mese. Il resto finisce nelle fogne. Ed è ormai noto che la più grande discarica di vestiti – nel deserto di Atacama, in Cile – si veda anche dallo spazio. I dati sono contentuti nel report di Mani Tese, presentato nelle scorse settimane, dedicato alla fast fashion, la moda usa-e-getta la cui produzione – ci sono catene che riscono a sfornare decine di collezioni l’anno – intasa il pianeta. Si capisce perché il Mase voglia introdurre la Responsabilità estesa del produttore (EPR) nella filiera dei prodotti tessili di abbigliamento, calzature, accessori, pelletteria e tessili per la casa, un provvedimento che mira a rendere i produttori responsabili della gestione del fine vita dei prodotti immessi sul mercato, promuovendo un modello più sostenibile e circolare: il 5 maggio si è chiusa la consultazione pubblica, aperta con lo scopo di raccogliere osservazioni o eventuali riformulazioni proposte da parte di soggetti interessati, riferiti allo Schema di decreto. «Che ci sia bisogno di controllo è innegabile – spiega Luca Campadello, Strategic Development and Innovation Manager di Erion, un sistema multiconsortile no profit per la gestione di differenti tipologie di rifiuti – e il consorzio ha lavorato negli scorsi mesi con la commissione europea. Noi proponiamo per prima cosa la centralità del ruolo dei produttori, che venga data a essi stessi la possibilità di migliorare le cose. Nella direttiva europea è più volte sottolineato che è del produttore la responsabilità di gestire il fine vita organizzando reti di raccolta sui territori, reti nei negozi e gestendo le fasi di selezione e riciclo dei materiali. Il decreto italiano, su questo punto, non sottolinea la centralità dei produttori ma sembra prevedere che tutto continui come è stato fino a oggi. Quindi – prosegue Campadello – per prima cosa riteniamo che sia necessario allineare il decreto italiano con direttiva europea». Doversi fare carico della gestione dei rifiuti, stimolerà i produttori a realizzarli con materiali riciclabili, che siano durevoli, a controllate gli impianti che lavorano quei rifiuti per evitare che si creino i rivoli che vanno ad alimentare le discariche nei deserti. «Se torniamo ai capi del deserto di Atacama – tiene a precisare Guzzon – sulla gestione degli invenduti, l’Europa sta lavorando. Dall’anno prossimo sarà vietata la loro distruzione e verrà richiesta la dichiarazione di cosa succede agli articoli che restano sugli scaffali». E che oggi, non raramente, finiscono in discarica con ancora il cartellino del prezzo. «Dal punto di vista tecnologico, la strada per il riciclo dei capi è ancora lunga. Perché non sono monomaterici – spiega Raffaele Guzzon, presidente di Erion Textiles, il consorzio per il tessile di Erion – e perché comprendono tanti accessori diversi, dai bottoni alle cerniere. Oggi come oggi, una piccolissima percentuale di capi in pura lana, puro cotone o puro cachemire possono essere riciclati e tornano a essere filati». Altro discorso, è il riuso dei capi di abbigliamento. E in questo campo il nostro Paese è all’avanguardia: esiste una rete di selezionatori, e l’Italia raccoglie anche capi provenienti da altri Paesi europei. Ma cosa succede agli abiti che gli italiani e gli europei dismettono? Spiega Luca Campadello: «Vengono presi in carico da imprese per la selezione, ambito in cui l’Italia è molto esperta, visto che la filiera è operativa da decenni, e ogni singolo indumento viene analizzato dalle maestranze. Se è ancora indossabile, e appartiene a questa categoria circa il 60%, è rivendibile come capo di seconda mano». La parte restante che non può essere riusata né riciclata, diventa straccio, viene impiegata come imbottitura nei pannelli fonoassorbenti, per esempio, e solo una percentuale infinitesimale viene avviata allo smaltimento.
Sul campo delle fibre multimateriale l’industria del riciclo non ha mai lavorato. «Ma d’ora in avanti sarà necessario perché in futuro sarà sempre più richiesto che il prodotto tessile contenga materiale riciclato e, quindi, ecco che il produttore è sarà interessato a chiudere il cerchio a occuparsi del fine vita perché porterà nuovi materiali. Questa spiega ancora Campadello – è l’intenzione del legislatore». Le aziende che si consorziano con Erion Textiles – tra cui Save The Duck, Amazon, Miroglio Fashion, Pompea, Ovs, Kiabi. Decatthlon, H&M… – potrebbero non fare niente e invece si stanno già volutamente impegnando anche con iniziative specifiche di sensibilizzazione del cittadino. Su cui, alla fine, ricadrà parte dei costi sostenuti dalle aziende del tessile per gestire il fine vita dei loro prodotti: ogni capo avrà un ecocontributo, un sovrapprezzo previsto dalla legge. Chi comprerà dieci magliette pagherà di più di chi ne comprerà una e la fa durare.