Sette, 26 maggio 2025
Intervista a Makkox
Marco Dambrosio, classe 1965, nato a Formia e cresciuto a Gaeta. Segni particolari: furia disegnatrice. Sin da ragazzino, e poi nelle pause del lavoro alla cava, o ai traslochi, o allo stabilimento balneare, come bagnino. Buttava giù degli schizzi e poi gli amici e colleghi si facevano regalare il disegno. Gliene ha chiesto uno perfino Sergio Mattarella. Lui è Makkox: autore, fumettista e cartoonist. Nella faretra il blog Canemucca, Gazebo, Propaganda live e mille altre cose.
Insieme al suo amico Valerio Aprea ha scritto un libro per Solferino, Il (vero) problema di questo Paese. Sono 34 monologhi, nati in tv a cominciare dal 2020 e poi tradotti sulla carta. Sì che il libro fa ridere e che si legge d’un fiato, ma è anche meno leggero di quanto finge di voler apparire. Una sorta di anti Marcovaldo, o di Marcovaldo dei giorni nostri, tra il surrealista e il didascalico e, ci scherzano gli autori, pure un po’ ironicamente paraculo, istrionico, populista e con la chiusa a effetto.
Come nasce questo libro?
«Il lavoro comincia ai tempi del Covid, c’era la voglia di mettere qualcosa nella cartuccera per la tv che non fosse solo satira politica. Quindi un impegno di cinque anni, molto divertente. Abbiamo iniziato per necessità e poi ci abbiamo preso gusto. Sono contento perché abbiamo fatto una cosa vera, non volatile. Valerio, con solo sei di questi monologhi, ci fa a teatro uno spettacolo di due ore che tiene incollati, senza uno sbadiglio».
Perché il nome Makkox?
«Inutile cercare riferimenti culturali, che so, gli scrittori russi. Vado sul web, allora semiclandestino e digito ingenuamente: Marco.Tiscali. Sì, vabbè, mi rispondono sulla rete, con questo nickname sarete milioni. E mi scodellano un po’ di alternative. Makkox l’ha scelto l’algoritmo».
Come era vivere a Gaeta per un ragazzo?
«Posto fortunato, sempre mare, il sentimento positivo degli Anni 80, il lavoro si trovava, tutto il resto era spiaggia, discoteche, turismo, stranieri. Io facevo fumetti, politica più niente che poco, certo poi vedendo come tirava sul web dopo le prime vignette, ho seguito l’onda, ma da ragazzo non mi interessava granché».
Eppure, la politica c’era, anche in casa.
«Mio padre aveva il busto di Mussolini, mia nonna materna, quando avevo otto anni, mi portava ai comizi di Giorgio Almirante e mi diceva “senti come parla bene”. Ma tutto questo non basta a costruire un imprinting politico. Certo, delle cose alla fine ti restano. Per esempio, io sono convinto della necessità di una gerarchia sui posti di lavoro. All’uno vale uno non ci credo, ci vuole competenza, esperienza e professionalità. Arrivo pure a dire, entro certi limiti, che, se devo scegliere, preferisco uno capace e magari vagamente truffaldino, più che una pippa onesta».
Nei mille lavori prima di diventare Makkox ha covato anche rabbia.
«Credo che la rabbia sia un sentimento diffuso, anche tra i giovani che vengono da famiglie agiate. Ma la mancanza di soldi è un bel motore. E allora te la porti dietro, sorda e continua, e incolpi tutti, dagli stranieri al governo».
Lei ha salvato Zerocalcare dall’illacrimata sepoltura, incredibile, non lo voleva nessuno. Perché in Italia si buttano via i talenti?
«Mah, una formula sicura non c’è. Credo che c’entri senz’altro la scarsa curiosità, e soprattutto la poca propensione al rischio. Alla fine, ci si rifugia nei talent show, che sono solo una corrida, e dubito che da lì escano sicuramente i migliori. Vale anche per il calcio, altrove investono sui ragazzi, qui manca il coraggio».
Scopre la politica quando diventa “burina e sguaiata”. Chi ha cominciato?
«C’erano mostri anche nella prima Repubblica, ma erano professionisti. Uno per tutti, Andreotti. Probabilmente la svolta comincia con Silvio Berlusconi. Con lui arrivano nei posti di potere gli avvocati, le signorine… Disegnare lui era facile, lo capivo, era potabile».
Lei ha detto che l’ipotesi di Pier Silvio in politica le ricorda quando il Napoli mise sotto contratto il fratello di Maradona. Ma allora Silvio era Maradona?
«Maradona però era uno che giocava in modo regolare, a parte la stranota mano in Argentina-Inghilterra, ai mondiali del 1986. Altra storia quella di Berlusconi, a lui certo non mi inchino, ma ammazza, c’aveva polso e quattrini».
Facciamo un po’ di Fantacitorio, che è anche il titolo di uno dei monologhi del libro. Che cosa pensa di Giorgia Meloni?
«Lei è un po’ della stessa scuola di Berlusconi, anzi meglio, ha imparato molto proprio da lui. È pop, ha la capacità di sentire il polso del Paese, sa comunicare, i risultati boh. I suoi in compenso sono impresentabili: Delmastro, Donzelli. Lollobrigida che commenta Trump vestito da papa e dice che pure indiani, cinesi e africani si vestono strano, ma noi non glielo facciamo notare, è da antologia. Un elemento positivo c’è però in Lollobrigida, è uno stimolo per i giovani: se ce l’ha fatta lui, si dicono, posso farcela anch’io».
Matteo Salvini.
«Pure lui ultra-pop, però a differenza della premier è goffo, e appare artificioso. Io quando disegno ci metto empatia, e posso arrivare a capire chi vota Meloni. Ma Salvini, mi chiedo, perché? A meno che uno non sia arrivato al “muoia Sansone…”. Salvini quando era ministro dell’Interno mi ha fatto paura, è uno che gli scappa la frizione, con una divisa è come quello che nel paesino riesce a diventare vigile urbano e consuma vendette. Al Fantacitorio con un Fanfani si comprano duemila Salvini».
Elly Schlein.
«Che dire? Non commento. Non l’hanno vista arrivare ma io non l’ho vista proprio. Il Pd per me resta misterioso».
Giuseppe Conte.
«Ecco, lui lo capisco di più. Uno che passa da Salvini a Che Guevara è pura meraviglia. Si è preso il partito e i suoi lo guardano con fede messianica».
Ha lavorato con Beppe Grillo.
«Come artista per me era un idolo, aveva tolto il suo nome dal simbolo, mi disse che voleva tornare al suo primo lavoro. E aggiungo che agli esordi nel manifesto dei Cinque stelle c’erano il clima, la difesa dell’acqua pubblica, mica i decreti sicurezza contro i migranti. Morto Casaleggio gli è cresciuta la voglia di lasciare la politica. Conte l’ha pugnalato, ma pure lui ha mollato. Magari ha sbagliato a scegliere il successore, Di Battista era più simile a lui, mentre Di Maio non ha retto».
Nel libro ci sono due monologhi sull’astensione. Makkox vota ai referendum?
«Sì voto, io voto a tutto, voto anche online. E voto pure per rammaricarmi dopo per la scelta che ho fatto. Se invece ti astieni poi non hai diritto di parola, devi sta muto!»
Donald Trump.
«Adesso è una fase così: qualunque assurdità pronunci, i suoi dicono: sì! Bello!»
Elon Musk.
«C’ha una testa così, ma non è detto che sia intelligente a 360 gradi. Si è buttato con Trump per gli affari e quello gli va a mettere i dazi. Fa il nazista e la Tesla sprofonda. Certo che non è il solo ad essersi schierato, si sono messi in riga tutti, da Bezos a Zuckerberg. La democrazia ha bisogno di un contesto, di un po’ di cultura, l’ignoranza è costosa».
Lei è credente?
«Credo nella Forza, quella degli Jedi. Credo in una proiezione globale dell’umanità, un miraggio a cui tendere, a un mondo buono e giusto, e questo mi avvicina alla dottrina cristiana. Non credo invece nell’essere trascendente. Quando però vedo che tanti fanno cose buone, come il volontariato gratis, be’ lì sono costretto a credere».
Ora c’è Leone XIV.
«Già gli hanno fatto mille analisi, pure con stile cabalistico, come muove le dita, l’orizzonte dell’occhio... Vedremo, per ora è un grande punto interrogativo. Per il mio lavoro di disegnatore è un personaggio differente, non è pop, mi pare da prima Repubblica».
Lei è tifoso?
«Tifo per il Napoli e sono molto contento quando vince, ma non sono tanto tifoso da arrivare a gufare gli altri. Mi piace il bel gesto, seguo tutto il calcio».
Lei è molto riservato sulla vita privata, vuole fare uno strappo?
«Niente strappi alla regola».
Meglio Roma o Milano?
«Roma è bellissima, ma se nasci burino per i romani resti burino tutta la vita. Milano è più a mia misura, più accogliente. Anche se adesso vivo in un paesino della Toscana».
Un desiderio.
«Molti, ma intanto continuare a lavorare con Valerio».