il Fatto Quotidiano, 26 maggio 2025
Mosca esporta greggio come prima del 2022, ma ci guadagna di meno
La petroliera Seajewel, costruita nel 2009, di proprietà greca e battente bandiera maltese, ha subito a febbraio due esplosioni al largo del porto di Savona mentre stava trasbordando il suo carico di petrolio greggio: lo scafo è stato danneggiato seriamente, ma non ci sono state vittime. Le indagini in corso hanno fatto emergere che anche questa petroliera apparteneva alla cosiddetta “flotta ombra” russa. Si stima che siano più di 700 quelle che, come la Seajewel, vengono utilizzate per trasportare il greggio russo: si tratta di imbarcazioni la cui proprietà è nascosta in paradisi fiscali, che battono bandiere di comodo, seguono rotte insolite e tortuose, spesso viaggiano in “dark” manipolando i trasponder, cioè gli strumenti che trasmettono la posizione della nave, e sono utilizzate anche per i trasferimenti dei carichi in mare, in modo da occultare l’effettiva provenienza della merce. Una flotta che, per queste caratteristiche, rappresenta una bomba a orologeria nei mari internazionali: l’incidente al largo di Savona è solo l’ultimo di una serie che, dal Mar Baltico alle coste malesi, hanno interessato negli ultimi due anni imbarcazioni che trasportano in modo schermato il petrolio russo.
Su questa flotta si basa la capacità del sistema petrolifero russo di aggirare le sanzioni occidentali, in particolar modo il price cap entrato in vigore alla fine del 2022. Oltre al divieto di importazione di greggio e prodotti petroliferi russi che gli Usa hanno imposto nell’immediatezza dell’invasione dell’Ucraina e che la Ue ha stabilito la fine 2022 per i prodotti che arrivano via mare, i Paesi del G7, l’Unione europea e l’Australia hanno anche deciso che nessuna società con sede in questi Paesi possa offrire servizi di trasporto, assicurazione e consegna di petrolio russo se questo viene venduto a un prezzo superiore al “tetto”, che per il greggio è 60 dollari al barile, mentre per gli altri prodotti raffinati varia tra 45 e 100.
Lo scopo è quello di colpire le entrate derivanti dall’export russo di greggio e prodotti petroliferi, mantenendo però l’afflusso sul mercato internazionale. La risposta russa si è basata su una modifica dei Paesi di destinazione, che in molti casi si sono fatti rivenditori di petrolio russo agli occidentali, e sulla costituzione di questa “flotta ombra”, che occultando l’effettiva natura e provenienza della merce trasportata, elude il tetto al prezzo. Osservando i dati diffusi periodicamente dall’Agenzia Internazionale dell’Energia (Aie), si nota che l’export di petrolio russo non ha subito un significativo impatto in termini di quantità: se nel 2021 la Russia esportava in media poco meno di 8 milioni di barili al giorno, nel 2022 e nel 2023 il volume è moderatamente aumentato, mentre nel 2024 è rimasto poco sotto. Dal punto di vista quantitativo, l’impatto delle sanzioni occidentali è stato perciò pressoché nullo. L’obiettivo di ridurre le entrate valutarie russe è stato però raggiunto grazie alla diminuzione dei prezzi: se nel 2022 l’export di petrolio e prodotti chimici e petroliferi era esploso fino a superare i 600 milioni di euro al giorno, nel 2023 e nel 2024 si è mantenuto in media sotto i 500 milioni giornalieri, e nei primi mesi del 2025 è sceso sotto i 450 milioni. Su questo elemento hanno inciso due fattori su tutti: la stabilizzazione dei prezzi internazionali, scesi sensibilmente dopo un 2022 molto turbolento (anche per l’incertezza sul regime sanzionatorio alla Russia), e l’emergere di uno sconto di prezzo tra quelli di riferimento internazionali, come il WTI e il Brent, e quello sul petrolio venduto dalla Russia, soprattutto nella qualità Urals, prodotto nei giacimenti degli Urali e della Siberia occidentale e destinato soprattutto al mercato occidentale.
Questo “spread”, che fino a febbraio 2022 era praticamente nullo, e che può essere considerato una misura del peso delle sanzioni occidentali sul petrolio russo, aveva superato i 30 dollari al barile nei mesi immediatamente successivi all’invasione dell’Ucraina, per poi scendere fino a 20 dollari e ritornare a oltre 30 con l’imposizione del tetto al prezzo. Da allora, però, si è andato progressivamente riducendo, sia grazie alle contromisure prese dalla Russia (la flotta ombra), sia a causa del progressivo ribasso dei prezzi internazionali. Un ribasso che nel 2025 è arrivato al livello del price cap e ha di fatto azzerato lo sconto tra il petrolio russo e quello Brent.
Il contesto internazionale che si è delineato con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca non fa prevedere significative variazioni di questo trend: l’incertezza, seguita alle continue minacce di nuovi dazi, contribuisce a deprimere la domanda globale, mentre i Paesi produttori dell’Opec+ sembrano avviati ad allentare i tagli alla produzione decisi negli anni scorsi. In questo scenario, dopo le oltre 200 navi della flotta fantasma sottoposte a sanzione da parte dell’Ue con l’ultimo pacchetto varato la scorsa settimana, la questione del tetto al prezzo del petrolio russo è tornata nuovamente al centro del dibattito politico europeo. Il vicepresidente della Commissione, Valdis Dombrovskis, ha anticipato l’intenzione di Bruxelles di rivedere il price cap, una proposta che incontra le richieste del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, il quale spinge per un abbassamento della soglia fino a 30 dollari al barile.
Un abbassamento del tetto, da solo, rischia però di avere un impatto limitato se non sarà accompagnato da un rafforzamento significativo ed efficace dei controlli sulla “flotta ombra”. Identificare i reali proprietari delle imbarcazioni, seguirne le rotte irregolari, monitorare i trasbordi in mare aperto e contrastare la manipolazione dei transponder richiede un coordinamento internazionale complesso e strumenti di sorveglianza più sofisticati. Senza un intervento efficace su questo fronte, anche un price cap più severo rischia di essere eluso con le stesse modalità che finora hanno permesso al petrolio russo di continuare a fluire sotto traccia nei circuiti commerciali globali.