Il Messaggero, 26 maggio 2025
Sovranismo culturale, un nonsense della Storia
Ci sono momenti in cui l’Italia fa l’Italia e mette a disposizione della comunità chiamata mondo la sua particolarissima attitudine all’apertura, all’incontro, al rifiuto dei muri. Specialmente quelli eretti in nome della cultura, che è di per sé un anti-muro. E allora, va notato come qui da noi si stia cercando di smontare, con la forza del ragionamento e del dibattito, la nuova categoria del sovranismo culturale, o scientifico-culturale, che si prova a sperimentare in America.
Come se l’America non fosse per antonomasia la terra della libertà e quindi il terreno meno propizio a questo tipo di esperimenti. È appena terminato il Festival dell’economia di Trento, sta per cominciare, stamane a Napoli, la sesta edizione del Soft Power Club – creato da Francesco Rutelli – e a Torino dal 30 maggio al 2 giugno va in scena il Festival internazionale dell’economia dove al caso Harvard e non solo a quello verranno dedicate numerose riflessioni. C’è insomma l’Italia in prima fila a favore della società aperta – no alle censure, sì alla libera circolazione degli studenti e dei professori nelle università e guai a ragionare con la logica della guerra tra egemonie culturali: suvvia, il 900 è finito da un pezzo! – e del tentativo, condotto nei tre eventi appena citati, di ribadire un concetto semplice ma non banale. E cioè, come diceva Benedetto Croce, che il sapere non può essere separato «dalla sua sorella di sangue e di spirito, la libertà».
La categoria del sovranismo culturale non è che un’altra forma di autarchia che vorrebbe accompagnarsi con l’autarchia economica. È un dazio di altro genere ma sempre un dazio. E questa involuzione sta molto mettendo in allarme qui da noi la comunità scientifica, gli economisti, gli studiosi e, per usare un termine che potrebbe apparire desueto, la repubblica delle lettere. Prima caratteristica del sovranismo culturale è il suo sapore anti-storico. Nel momento in cui conoscenza e non conoscenza, più di giovani e anziani o di lavoratori e pensionati, è la vera dicotomia, il sovranismo culturale va a colpire la chiave del futuro che si compone di accoglienza e di circolazione delle idee, di mescolanza dei sistemi formativi, di nomadismo di studenti e docenti in nome della manutenzione e del potenziamento della civiltà liberale.
È evidente a tutti che il sovranismo culturale nuoce alla nazione che lo applica, l’America non può essere America senza attirare cervelli, e non danneggia soltanto le altre nazioni che si ostinano giustamente a considerare gli Stati Uniti la frontiera che oltrepassa se stessa e perciò è attrattiva. Si calcola che l’idea di chiudere le università americane agli stranieri – con il pretesto del woke, che esiste purtroppo, e dell’anti-semitismo, che alligna a sua volta – costituirebbe un danno incalcolabile per gli Stati Uniti. Entrambi i fenomeni, però, si possono combattere non con le crociate bensì con la forza della persuasione.
Il 23 per cento dei brevetti americani viene da stranieri; il 50 per cento dei premi Nobel americani viene da stranieri; il 42 per cento della aziende americane di intelligenza artificiale viene da stranieri. E allora, per rottamare uno straordinario primato tecnologico, il sovranismo culturale è la carta giusta. Se fosse esistito prima, il sovranismo culturale americano avrebbe tolto all’Italia moltissimo. Guardando ai migliori cervelli che hanno fatto fortuna al di qua dell’Atlantico e nel nostro Paese, molti sono diventati quelli che sono studiando e insegnando negli Usa. Basti pensare, solo nella ricerca scientifica, a molti dei nostri Premi Nobel, da Rita Levi Montalcini a Carlo Rubbia, o anche Giorgio Parisi che ha fatto un’esperienza importante alla Columbia University. Anti-storico, autolesionista (ossia portatore di declino americano) e nemico degli altri Paesi, il sovranismo culturale è una categoria che nega la radice stessa di cultura che è contaminazione tra persone e tra idee. E superamento del concetto di confine. È contagio. E la cultura occidentale si è formata tramite stratificazioni e mescolanze, basti ricordare come i romani hanno salvato, riscritto e assimilato l’eredità della filosofia greca, o come la matematica e la geometria orientale hanno penetrato la nostra civiltà o quanto il mondo arabo sia presente in Dante. Se fosse esistito il sovranismo culturale, saremmo stati e continueremmo ad essere, tutti più poveri.
Il sovranismo culturale è un populismo giocato in un altro campo e che si nutre degli stessi ingredienti della demagogia più classica: anti-intellettualismo, fastidio per le élites ma anche per un innalzamento generalizzato del livello di conoscenza, anti-meritocrazia e rivolta popolare degli immobili contro chi si muove per fare crescere se stesso e gli altri. La storia del mondo si è evoluta, dal tempo dei romani in poi, sulla base dei movimenti non solo delle merci e delle persone ma anche delle idee, dei diritti, dei modelli di convivenza e dell’incontro tra diversi. Il sovranismo culturale è la negazione di tutto questo.
Oltretutto, tagliare le reti al tempo della Rete è un paradosso. Così come lo è il riempirsi la bocca con la parola pace, senza impegnarsi anzitutto a pacificare il mondo della cultura, lì dove si costruisce la pace prima ancora che nelle cancellerie politiche e nelle sedi diplomatiche.
Per battere questo nuovo-vecchio spettro che si aggira nel mondo però qualcosa si può fare. Ossia migliorare, da parte dei Paesi europei, la forza di attrazione delle nostre istituzioni educative, per renderle l’habitat naturale di chi studia, e anzitutto l’Italia può cimentarsi in questa meravigliosa avventura. Quel che occorre al nostro Paese è un investimento sempre maggiore nell’università, in termini di risorse ma anche di visione del futuro. Gli atenei italiani sono di ottimo livello, troppo spesso ce ne dimentichiamo e adesso dobbiamo ricordarcene di più. E intanto, in ogni manifestazione culturale e evento scientifico – Trento, Napoli, Torino e via così – il nostro Paese, che dell’import-export della conoscenza è all’avanguardia da millenni, sembra molto motivato nel dire che l’Occidente è questo e che l’America, fuori dalle pulsioni del momento, non può che appartenere a questo spazio di energia plurale e multilaterale.